Terzo colloquio per il ciclo di interviste.
Dalla natia Taranto a Miami. Passando prima per l’università a Roma e dopo per 15 intensi anni a New York. Personalità eclettica, Tiziana Nenezic ha pubblicato quest’anno il suo primo libro, Come sopravvivere ai newyorkesi. Il racconto di una che ce l’ha fatta (forse), (Cooper, Roma, 2008). Un godibile e vivissimo ritratto della real life nella Grande Mela.
Poco dopo la laurea in lingue a Roma, 15 anni a New York. Nel libro hai scritto: "New York delude solo chi non la capisce". Cosa significa? Spesso si arriva a New York portando con sé un immaginario troppo hollywoodiano e pieno di preconcetti che non hanno niente a che vedere con la vita vera sul posto. In Italia, si pensa che la vita sia dura ma arrivando a New York ci si rende conto del concetto di sopravvivenza: il titolo del mio libro sembra ironico ma non lo è. A New York bisogna darsi da fare e muoversi. Essere a New York e non riuscire a scovare i suoi tesori, abbattersi alle prime difficoltà, non fare la vita che si sogna, delude molto e se non ti sai adattare velocemente scappi a gambe levate, perdendo un’esperienza che potrebbe essere quella della tua vita.
Quale immaginario hanno, gli americani, dell’Italia? L’immaginario che gli americani hanno, oggi, dell’Italia e degli italiani è sicuramente cambiato e la loro visione è molto migliorata rispetto al passato. L’attuale situazione politica italiana non aiuta per quanto riguarda le relazioni pubbliche internazionali: quando l’Italia va sulla stampa, o su altri media, si tratta di storie di malcontento popolare e gli americani sono venuti a conoscenza del fatto che gli italiani non sono poi così felici e non sono solo quelli della moda. Però, oggi come oggi, arrivare a New York da italiani non è male perché, comunque, veniamo reputati persone con una certa cultura e un certo patrimonio. Insomma: siamo abbastanza quotati.
Quali sono le aree più vivaci della scena creativa newyorkese? Le gallerie di Soho fanno gola a pittori, fotografi, grafici. Nell’area che si definisce ormai Downtown, si è spostato ciò che riguarda il lato commerciale della creatività, quindi il mondo pubblicitario. Soho e Tribeca (un’area che si è risvegliata) sono riferimenti anche per la moda. Comunque, si tratta di una città in continua evoluzione: quando mi sono trasferita, 17 anni fa, alcuni quartieri, come ad esempio Tribeca, erano molto pericolosi ed ora, invece, sono zone ambìte.
Cosa hai imparato durante gli anni di lavoro a New York? All’inizio, non avendo i documenti per lavorare in pianta stabile, mi sono adattata, come fanno tantissimi. Ho fatto la house-sitter e la cameriera in ristoranti e bar, ho imparato persino a leggere le labbra dei clienti! Una volta ottenuta la carta verde, ho iniziato a lavorare nel mondo corporate (aziendale, NdA) americano, che è incredibilmente competitivo, e questo è stato molto duro per una persona con uno spirito mediterraneo come me. Ho lavorato nel mondo corporate per 10 anni ed ho avuto modo di imparare molte cose: durante i primi tempi, un aspetto che colpisce gli italiani, e gli europei in genere, è il pochissimo tempo libero a disposizione del lavoratore: la media delle ferie è di dieci giorni all’anno. Mi è successo di avere, in un anno, solo cinque giorni di ferie: sono cose che fanno riflettere.
Ora sei una scrittrice e collabori con testate italiane ed americane. Una libera professionista nel settore della scrittura: vantaggi e svantaggi? Provenendo dal mondo aziendale newyorkese, molti si lamentano della mia fretta, soprattutto gli italiani! Per me, tra il dire e il fare non ci dovrebbe essere di mezzo il mare. Mi appassiona scrivere sia in italiano sia in inglese e non voglio perdere questa abitudine: quando ho iniziato a scrivere, l’ho fatto in inglese. La prima volta che mi è stato offerto di scrivere in italiano, ho tentennato perché la mia vita in America è completamente immersa nella cultura e nella realtà locale: ho sempre lavorato con americani e non conduco una vita che mi porta ad avere rapporti con altri italiani, anzi. Era dai tempi dell’università che non scrivevo in italiano: quando l’ho fatto mi sono sentita riavvicinata alla mia cultura e mi ha fatto enorme piacere perchè 17 anni sono parecchi e non tutti gli anni sono riuscita a tornare in Italia. Il distacco è stato abbastanza profondo, da parte mia, e potermi riavvicinare alla mia terra, a livello culturale, mi ha fatto riscoprire una parte di me stessa.
Miami è un mix di varie culture: quali sono gli intrecci più creativi? A Miami c’è di tutto. La scena artistica in senso stretto si è trasferita: New York rimane sempre un centro importante ma il cuore è qui, da quando è arrivata Art Basel, che ora si svolge in due continenti, a Miami a dicembre e in Svizzera a giugno. Da quando è arrivata la mostra, nel 2002, la crescita è stata esponenziale: si è trasferito il mercato dell’arte, non solo i visitatori e i turisti. Il Design District, a Downtown Miami, è un susseguirsi di gallerie. Due anni fa, sono andata via da New York un po’ a malincuore, è stata una decisione lungamente meditata. Ma Miami ha molto da offrire: il ritmo della vita quotidiana è più lento e più a misura d’uomo. Il salto qualitativo mi sembrava ampio, a livello culturale, ed invece anche qui ci sono tante cose: ad esempio, in autunno, c’è una bella fiera del libro con molti editori e scrittori. Il mercato artistico è la parte più interessante: c’è un mondo in ascesa che non è ancora saturo come quello newyorkese. New York, per quanto creativa sia, ha raggiunto un certo livello di saturazione dove l’ "incanto" è un po’ svanito; invece qui c’è ancora gente entusiasta, che ti vuole ascoltare, che vuole sapere cosa sta succedendo, mentre a New York sei un’altra goccia in un mare immenso e corri il rischio di perderti. Credo di essere arrivata a Miami in un momento di crescita ideale. Italiani, francesi, argentini, brasiliani e molti altri ancora: Miami oggi è un mix senza sosta.
Cosa consigli ad un giovane italiano che voglia confrontarsi, a livello creativo, con il mondo americano? Bisogna essere preparati. Io penso che quella che si definisce ‘fortuna’ sia, in realtà, una preparazione che incontra una opportunità. Questa è una terra di opportunità, ce ne sono: ma se non sei preparato e le lasci sfuggire, sono altri a coglierle. Ricevo molta posta da giovani donne e le domande riguardano il fatto che si vuole lasciare l’Italia per venire in America. Io mi sento di dire che bisogna prepararsi bene, al di là delle situazioni personali e di quella che è stata la mia esperienza. L’America è una lezione stupenda: vedo persone, che hanno vissuto qualche anno a New York, ritornare in Italia con una mentalità e dei ritmi completamente diversi. E’ un punto di vantaggio ed è una esperienza che forma. Ma, al tempo stesso, se non sei preparato finisci con il perdere la lezione e con l’essere deluso perchè non hai gli strumenti per capirla.