Prende avvio, da oggi, un ciclo di interviste. Colloqui informali per ampliare la visuale sui temi del blog e, più in generale, sulle aree strategiche di oggi e di domani: ricerca, creatività, innovazione.
Un professore dal taglio internazionale. Michele Sorice è direttore del Centro Ricerche Studi Culturali-Centre for Media and Cultural Studies all’Università di Roma "La Sapienza", dove insegna Media Research e Storia della radio e della televisione nella Facoltà di Scienze della Comunicazione. Tiene lezioni, inoltre, all’Università LUISS di Roma, alla Pontificia Università Gregoriana e all’Università della Svizzera Italiana di Lugano. I suoi attuali orientamenti di ricerca riguardano le audiences mediali analizzate secondo metodi derivati dai cultural studies britannici.
Il pubblico dei media sta vivendo, in questi anni, un importante mutamento. Quali connotazioni sta assumendo? Direi che ci sono due tendenze in atto: la prima, accertata già da tempo, è un maggior attivismo, ovvero una maggiore competenza critica del pubblico. La seconda è una maggiore voglia di partecipazione, intesa non solo come pubblico che accede ai contenuti ma, in qualche modo, è in grado di intervenire nella codifica e nella costruzione dei contenuti. C’è, poi, la presenza di un pubblico sostanzialmente passivo: il pubblico dei media contemporaneo viene così ad articolarsi, al suo interno, in numerosi micro-segmenti differenti, per cui convivono fasce di fruizione passiva con pubblici molto attivi e partecipativi.
Lei si sta occupando, assieme ad altri docenti universitari italiani, di un progetto nazionale di ricerca intitolato Media Generations. Di cosa si tratta? Si tratta di un progetto che coinvolge cinque Atenei: Università di Roma "La Sapienza", Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Università di Urbino, Università di Bergamo, Università di Trento. Queste cinque unità di ricerca stanno lavorando sui consumi culturali e soprattutto mediali adottando un approccio di tipo generazionale. Cerchiamo di studiare come il momento dell’alfabetizzazione al consumo mediale rappresenti, o abbia costituito, una sorta di punto di svolta per delle generazioni; dove per generazioni non intendiamo semplicemente clusters anagrafici ma identità molto specifiche che hanno anche una connotazione legata alle loro stesse forme di consumo. Adottare la prospettiva generazionale per leggere il consumo culturale e mediale significa anche provare a comprendere come le diverse generazioni si autorappresentano, in funzione del consumo che hanno espletato, e al tempo stesso come si pongono nei confronti dei consumi culturali e mediali oggi.
E’ possibile parlare di un rapporto tra creatività e ricerca scientifica nei media? Non c’è ricerca scientifica senza creatività. La ricerca ha necessità di essere creativa. Ed anche i metodi della ricerca, inevitabilmente, hanno bisogno di essere più pronti a recepire le diverse prospettive della ricerca stessa. Se, in passato, era abbastanza semplice utilizzare metodi standardizzati o standardizzabili, oggi dobbiamo spesso adottare anche metodi che non a caso definiamo creativi; dove per creativi non intendiamo metodo senza fondamento scientifico ma la possibilità di adottare strumenti non utilizzati fino a quel momento nella ricerca scientifica ed inquadrarli all’interno di protocolli, ovviamente verificati, che ci consentano poi di affrontare le modalità differenti in cui si svolge oggi la comunicazione.
Lei collabora con colleghi inglesi: quale mix creativo si viene a creare con persone che operano con riferimenti diversi? Il mix creativo deriva da vari elementi. Il primo è la diversità di provenienza accademica, che ha come corollario, a volte, anche una diversa forma mentis. Questo si traduce in una difficoltà iniziale nell’approntare metodi e strumenti comuni ma successivamente diventa una ricchezza quando si riescono a definire standard condivisi di ricerca. Il secondo elemento importante riguarda il confronto sulle diverse realtà territoriali, che hanno molti elementi sia di contatto sia di differenza. Lavorando, però, su temi comuni e sugli stessi oggetti, è possibile definire questi oggetti all’interno di frames che sono tra di loro differenti; ciò significa anche allargare le possibilità di interpretazione e quindi non fermarsi ad una logica puramente locale. Questa è per noi una grande ricchezza e lo è anche per loro. Recentemente, una collega londinese mi diceva: "meno male che ascoltare le ricerche sulle mobile audiences in Italia ci consente di uscire dal provincialismo britannico". Evidentemente, tutti sentiamo la limitatezza derivante dall’essere radicati soltanto su un territorio e, d’altra parte, la ricerca scientifica per sua stessa natura non ha confini.
Lei insegna all’Università "La Sapienza" dal 1992, anno di nascita dei primi corsi di laurea italiani in Scienze della Comunicazione. Tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila si è parlato molto di questo percorso di studi, considerato il boom di immatricolazioni e il forte interesse dei giovani, in quegli anni, verso il mondo della comunicazione. Il dibattito intorno alle scienze della comunicazione ruota, principalmente, attorno a due opinioni contrapposte: da un lato c’è chi ritene inutili questi corsi e dall’altra c’è chi ritiene lo studio della comunicazione un’area disciplinare innovativa in Italia. Si può tentare un primo bilancio di questo periodo? Non è facile fare un bilancio poichè le esperienze di Scienze della Comunicazione in Italia sono molto differenziate: non c’è un modello unico nazionale di corso di laurea. Il modello di Roma "La Sapienza" è diverso da quello, ad esempio, della Cattolica di Milano, e di altre sedi più periferiche che pure hanno fatto esperimenti molto interessanti. Ritengo utile e necessario, nonchè innovativo, studiare la comunicazione. Ma la deriva che lo studio della comunicazione ha preso, talvolta, nelle Facoltà di Scienze della Comunicazione, è a mio avviso molto preoccupante. Perchè è una deriva di ipersemplificazione, talvolta fondata su un "praticonismo" eccessivo, ovvero sul conferimento di saperi finalizzato solamente alla realizzazione di prodotti pratici, senza l’adozione di un background teorico di riferimento, necessario per comprendere la realtà che ci circonda. La comunicazione non è soltanto una pratica: è la modalità attraverso cui le società contemporanee si strutturano. Perciò studiare la comunicazione senza studiare la società, senza avere la capacità di comprendere i movimenti sociali, lo sviluppo antropologico e i meccanismi che più generalmente stanno dentro la società, diventa un impoverimento degli studi di comunicazione. Da questo punto di vista, non solo rivendico l’importanza e l’innovatività degli studi sulla comunicazione ma, al tempo stesso, ne individuo alcuni rischi e pericoli che mi sembrano molto accentuati in alcuni ordinamenti didattici. Rischi che comunque, in qualche modo, sono presenti in tutti gli ordinamenti di Scienze della Comunicazione. La possibilità che abbiamo per ovviare al rischio è quella di non perdere il valore strategico di un sapere che sia fondato anche su una buona conoscenza teorica, una ottima capacità di analisi e di sintesi, l’acquisizione di strumenti metodologici. Per fare un esempio concreto: non basta imparare a fare un comunicato stampa: bisogna anche sapere quali sono i meccanismi produttivi, distributivi e culturali che sono dietro.
Cosa consiglia ad un giovane che voglia intraprendere un percorso di ricerca nell’ambito mediologico? Dopo aver studiato scienze della comunicazione o scienze sociali o comunque una materia che consenta di avere una preparazione ampia su questi temi, consiglierei di trascorrere un periodo, più o meno lungo, fuori d’Italia. E, se ci fosse la possibilità, di lavorare all’interno di istituzioni universitarie che abbiano sempre saputo porre attenzione al mondo della società nel suo complesso e a quello dell’impresa. Da questo punto di vista, potrebbero rappresentare un elemento strategicamente molto importante esperienze in Nord Europa, in Inghilterra, o anche negli Stati Uniti, in Canada o nella sempre più interessante, dal punto di vista degli studi mediologici, Australia. Consiglierei, quindi, di uscire dal provincialismo e tentare, almeno per un breve perido, la strada dello studio all’estero. Se poi ci fossero le possibilità e la voglia di fare un PhD (corso di dottorato di ricerca, NdA), questo non può che essere interessante. Dico questo non tanto per suggerire una fuga dall’Italia, che pure in qualche caso potrebbe essere utile, ma per dare a tutti l’opportunità di vedere che cosa c’è intorno e portare quello che di buono c’è intorno, ed è molto, anche in quel poco di buono che abbiamo noi e farlo crescere.