Un caffè con… Alessandro Ghigo

Nuovo appuntamento con le interviste del ciclo "Un caffè con…".

Dalla riviera ligure di Sanremo alla Gran Bretagna. Classe 1979, vive a Londra dall’età di 18 anni: Alessandro Ghigo è direttore creativo di Jelok, agenzia di produzione creativa che ha co-fondato nel 2001 con Massimo Amelio. Gusto italiano applicato all’ambiente creativo inglese.

Come si possono raccontare la tua storia a Londra e quella di Jelok? Originariamente andai a Londra perchè volevo imparare l’inglese. Dopo alcune iniziali esperienze in un ristorante, ho trovato lavoro come junior designer e dopo otto, nove mesi sono andato a lavorare nella City, dove ho cominciato a fare animazioni. Dopo un anno sono andato a lavorare per una azienda farmaceutica dove sono rimasto circa due anni. Mentre lavoravo in questa azienda farmaceutica ho deciso di aprire Jelok con Massimo Amelio, che ne è direttore tecnico. Massimo aveva già avuto un’esperienza lavorativa di un anno e mezzo in un ISP-internet service provider e in quel momento lavorava per una società che curava il software per la transazione di somme tra banche, per la maggior parte nello Stock Exchange di Londra. E, così, abbiamo deciso di aprire la ditta. Entrambi avevamo già lavorato come freelance e da lì, passo dopo passo, è nato tutto: abbiamo deciso di aprire l’ufficio e di prendere personale. In seguito abbiamo deciso di frequentare l’università a Londra: è stata una mossa che ci è stata molto utile: oltre al mondo del design, abbiamo esplorato ed approfondito anche il mondo del business. Attualmente Jelok è ancora aperta ma è in corso un processo di confluenza con una ditta che si chiama Combustion Interactive Ltd. Jelok diventerà parte integrante di Combustion, dove ho una quota, e i clienti di Jelok verranno gestiti assieme a Combustion.

Come si è combinata la tua italianità con l’ambiente creativo e lavorativo di Londra? Essendo italiano, il mio ‘flavour’ (gusto, N.d.A.) è prettamente italiano, avendo anche frequentato l’Istituto d’Arte in Italia. Ma, allo stesso tempo, essendo andato in Inghilterra all’età di 18 anni mi sono formato anche lì come professionista e come uomo. Negli ultimi dieci anni, Londra è diventata molto europea e questo è stato un vantaggio per me: capivo il design inglese e nello stesso tempo avevo un gusto italiano. All’inizio, i clienti erano soprattutto clienti che si fidavano del modo in cui io gli vendevo il lavoro e, naturalmente, il lavoro rispecchiava le loro aspettative. Quando abbiamo iniziato a lavorare con clienti come Disney Uk o Vodafone, il nostro approccio doveva essere alla pari con le agenzie inglesi ed ecco che lì è valsa la nostra esperienza inglese. Essenzialmente, gli inglesi apprezzano l’italiano. Il campo creativo inglese è molto libero anche se c’è da dire che gli inglesi tendono a tenersi la maggior parte del business, nel senso che tendono a fare il business tra loro e poi si avvalgono di italiani, francesi o altri per fare il lavoro. Poi questo mondo globale che c’è a Londra ha fatto sì che molte nazionalità si trovassero a lavorare con varie collocazioni in numerose società: questo è stato un vantaggio per noi, a livello culturale. In questo momento stiamo lavorando, tra gli altri, con Disney Uk e ci rapportiamo, ad esempio, con una persona brasiliana che apprezza il fatto che siamo italiani e che abbiamo un approccio al business diverso dagli inglesi. E’ ovvio che il lavoro deve essere fatto come richiede il mercato. Il design in Italia non è europeo nel senso pieno del termine. Ci sono differenze tra l’approccio italiano e quello inglese: la maggioranza degli italiani non parla inglese e le reazioni al marketing sono diverse. L’italiano non si "identifica" con il marketing come un inglese: così come un inglese non si identifica nel cibo come fa un italiano. L’italiano è più orientato a scoprire il prodotto che a credere alla pubblicità.

Quali sono state le difficoltà iniziali e come sono state risolte? Le difficoltà, come in ogni business, sono state prima di tutto la ricerca e la gestione del cliente. Ed inoltre abbiamo dovuto affrontare la gestione interna dell’agenzia: la comunicazione esterna verso il cliente, la comunicazione interna e l’implementazione di tecnologie sugli standard in uso in Inghilterra. Si tratta di una differenza importante rispetto al lavorare in una grossa società e fare la propria parte: nel nostro caso si tratta di lavorare per la nostra ditta e allo stesso tempo gestire il cliente, essere aggiornati sulle tecnologie e con il lavoro che si sviluppa. Avevamo 21-22 anni quando abbiamo aperto e agli esordi non avevamo conoscenze approfondite di business. C’è voluta anche auto-motivazione da parte nostra. Ecco perchè, dopo un paio d’anni dall’apertura, io e Massimo abbiamo deciso di andare all’università. E’ stata una decisione che ci ha aiutato ad avere quelle competenze che ci mancavano: ad esempio, saper scrivere bene una proposta in inglese, approcciare i clienti e gestirli. Io ho studiato marketing e mi sono concentrato, tra l’altro, sull’analisi del mercato e del cliente, sull’approccio a livello pubblicitario, sul livello di impegno che bisogna avere quando si lavora su determinate campagne pubblicitarie. Essere un tecnico significa avere abilità tecniche ma gestire un business richiede una competenza globale.

Hai anche recitato in alcuni spot e film girati a Londra… Diciamo che quella è stata una vicenda più personale e ho lavorato più che altro come comparsa. Qualche volta ho avuto l’opportunità che il mio viso fosse inquadrato per qualche secondo in più. Però è stata una bella esperienza: ho conosciuto molte persone interessanti, sia nel mondo della pubblicità sia nella film industry. E’ stato utile per il mio networking.

Stai aprendo un ufficio di produzione in Italia. Quali sono le motivazioni che ti hanno portato a tale scelta? Ultimamente stiamo iniziando a lavorare anche con Disney Italy, oltre che con Disney Uk. Avremo, dunque, uno studio sia in Italia sia in Inghilterra: gestiremo una parte della produzione in Italia e la clientela rimarrà prettamente inglese. Mi piace ritornare: anche per il luogo italiano dove sono, la qualità della vita è apprezzabile. La mia presenza in Italia significa avere un ufficio dove poter sviluppare il lavoro portando qui la mia esperienza, e trasmetterla alle persone che lavoreranno per me. Desidero tornare in Italia con una base fissa e mantenere il mio business in Inghilterra.

Ti senti un rappresentante di quella classe creativa globale che lavora con le idee, la creatività e le tecnologie? Sì, mi sento partecipe della sfera creativa. Anche se in piccolo perchè ci sono agenzie più grandi della mia, mi sento comunque partecipe di quella che è la pubblicità; ho la mia fetta nel mercato inglese e ho un ampio livello di relazioni professionali. Una cosa che mi rammarica è che ci siano pochi italiani nel mondo a rappresentare l’Italia a livello del design e del web.

Quali sono le cause e le possibili soluzioni a questa situazione? Il problema principale deriva dal sistema scolastico e formativo, a mio avviso. In Italia ci sono mentalità chiuse, un sistema scolastico troppo burocratico e troppo basato sulla teoria. Invece bisogna dare ai giovani la possibilità di creare, provare, sbagliare, sviluppare e bisogna aprirsi subito alle nuove tecnologie, dando modo ai giovani di provare e con le tecnologie adeguate. In Italia bisogna cercare di avere dei veri e propri centri di sviluppo in vari campi e nel campo della creazione bisogna avere, prima di tutto, i mezzi. Nel mondo del design e della pubblicità on line, l’inglese è un must: i corsi universitari dovrebbero essere in interazione con Atenei internazionali e non bisogna sminuire nessun lato del design. Ciò che frena l’Italia è la mancanza di influenze dall’estero. L’Italia è molto chiusa su di sé e dovrebbe aprirsi maggiormente, senza perdere comunque la sua identità culturale. Però bisogna accelerare questo processo di apertura al mondo soprattutto per le nuove generazioni, altrimenti saranno generazioni in difficoltà. Nel design, a Londra, c’è spazio anche per un italiano, ma solo se fa una gavetta seria. Parlare di design significa parlare di cultura: c’è correlazione fra questi tre aspetti: conoscere la cultura, parlare bene l’inglese, saper lavorare in team. E poi bisogna saper programmare e darsi tempo: molti italiani arrivano qui a Londra e vogliono ottenere risultati subito, senza tenere presente il cambiamento di ambiente e la forte concorrenza internazionale a livello professionale. Sono stato selezionato per un corso alla Harvard University e l’anno prossimo andrò negli Stati Uniti: si tratta di un corso business nell’ambito del marketing on line. La formazione continua è un tema fondamentale: bisogna essere aperti ed interessati verso ciò che c’è fuori, leggere molto, cercare di uscire dalla quotidianità. Il fatto di essere a contatto con l’estero permette di vedere le cose prima.

Alessandro_ghigo