Un caffè con… Felice Limosani

Nuovo colloquio per le interviste del ciclo “Un caffè con…”

Felice Limosani è
un libero professionista e ama definirsi un digital storyteller. Con base a
Firenze, si occupa di creatività per numerosi clienti, attraverso approcci
innovativi che intendono emozionare le persone. Ha lavorato nel mondo della musica
per vent’anni, facendo il Dj.

Qual è stato il tuo
percorso professionale fino ad oggi?
Ho 42 anni e fino al 2000 sono stato
un Dj professionista, l’ho fatto per circa vent’anni e mi sono occupato anche
di produzioni musicali. Dal 2000
in poi, cominciai a trasformare la mia attività: era il
momento della new economy, con le famose start-up, il venture capital e la
centralità della cosiddetta ‘idea’. Attraverso l’idea si potevano aprire delle
opportunità in termini di stimoli e riuscii ad approcciarmi a certe dinamiche all’epoca
per me sconosciute, a partire, per esempio, da una semplice presentazione in
powerpoint. Mi ritrovai, attraverso un amico, a parlare con Gianfilippo Cuneo
di un qualcosa che riuscivo ad esprimere con le mani: praticamente presi il
telefono e dissi: “ma perché il telefono deve stare vicino all’orecchio e non
davanti agli occhi?” In qualche modo, fu quella l’intuizione: avevo
intercettato che nell’ergonomia c’era una modalità di fruizione insita, ovvero
lo schermo non deve stare di fianco all’orecchio ma davanti agli occhi e quindi
cominciai a ragionare sul perché oltre ai numeri non si facessero girare altre
cose. A quei tempi non esistevano il protocollo Symbian e la tecnologia degli mms.
La cosiddetta killer application cominciava ad essere l’sms, inteso come
servizio business per l’imprenditore, ma non eravamo ancora ai fenomeni di
massa come quelli attualmente conosciuti. Mi venne accordata una certa fiducia e
venni inviato in un incubatore del gruppo Bain&Cuneo, dove iniziò a
prendere forma questa visione creativa dello strumento telefono abbinato ad una
serie di applicativi e servizi legati all’intrattenimento e alla comunicazione
emotiva. In quell’ambiente c’era un fattore critico: la tecnologia. Ma dopo
otto mesi di collaborazione fra me e loro, venne presentato a Cannes lo
standard degli mms e presentato l’accordo della piattaforma Symbian. Durante
quella esperienza ho avuto un vero e proprio salto di conoscenza e ho imparato ad
esprimere certi concetti in un certo modo. Quello è stato il momento in cui
decisi di dedicarmi, attraverso la mia creatività, ad esplorare un nuovo modo di
espressione collegato alla mia creatività anche artistica: successivamente sono
stato sufficientemente capace ad abbinarlo al concetto di business. Non mi
considero un artista che ambisce al gallerista o ad entrare nel circuito
dell’arte, non sono una web agency, non ho uno studio inteso come studio di
grafici, non sono niente di tutto quello che è il lavoro un’agenzia. Sono una
persona che, per via della propria personalità e per il mio passato che non ha
niente a che fare con la conoscenza canonica, si pone come un elemento di
disturbo creativo nei progetti; per cui mi ritrovo, in alcuni momenti, ad
essere un creativo/artista ma in altri momenti le aziende mi coinvolgono su
riflessioni legate al posizionamento, in termini di percezione e di ‘in che
direzione andiamo’. A volte si fa un ottimo prodotto ma la percezione
all’esterno è, da
1 a
10, magari 7. Io interagisco con una
visione personale, stimolando a fare le cose ‘al di fuori della scatola’. Mi
definisco una persona creativa e un digital storyteller. Il digital
storytelling sta diventando un grande strumento di comunicazione e di
linguaggio che però richiede, alla base, anche una buona dose di talento
narrativo e una infarinatura abbastanza articolata della tecnologia: io non
sono un programmatore o uno smanettone che passa la tutta la giornata al
computer ma penso di essere un discreto direttore d’orchestra. In base al
progetto, faccio in modo che la barca vada in una direzione o in un’altra.

Hai fatto il Dj per
vent’anni. Cosa hai imparato dal mondo della musica?
Moltissime cose che
oggi mi sono davvero utili. Intanto il senso del ritmo, non quello tribale,
bensì il ritmo inteso come: tutto deve avere un inizio, un centro e una fine.
Esattamente come una serata: deve cominciare, deve avere un clou e poi deve
pian piano andare a concludersi, perché poi ne inizierà un’altra. Ho imparato
anche a capire che ci sono equilibri che vanno rispettati: una volta, in un
seminario, dissi che per la mia conoscenza il master è il cursore sul mixer che
serve a mettere in armonia i dieci canali. Ho imparato che la batteria non può
essere più alta della voce, e la voce deve avere un buon timbro rispetto alla
chitarra. Secondo me, sono tutte cose che nel mondo della comunicazione servono
a creare risultato. Inoltre, ho anche intrapreso, in maniera più percettiva, un
percorso personale di approfondimento nei confronti dell’atmosfera. Per me,
tutto ciò che è instabile è per sua natura difficile da raccontare o da
rappresentare. Abbiamo però questo concetto-parola che è ‘atmosfera’ e sono certo
che molti dei miei lavori riescono a vibrare perché sono fortemente curati dal
punto di vista dell’atmosfera che producono. Come ci è capitato di leggere in
testi che narrano di multisensorialità, è vero che ci sono cinque sensi ma
forse c’è anche il sesto senso, che si ciba moltissimo di questa mia cura verso
l’atmosfera. E tutto questo, mi viene dal mondo della musica.

Sostieni che i brand si
possono raccontare in modo affascinante. Come ci riesci nei tuoi lavori?
Intanto
non immagino i brand come marchi. Li considero come delle entità, cerco di
impadronirmi della loro natura, della loro atmosfera, di quello che sono stati
in passato e che, chiudendo gli occhi, potrei immaginare che potrebbero essere
in futuro. Diciamo che non prendo molto sul serio l’argomento per cui i brand
equivalgono al prodotto, non perché non sia un argomento serio ma perché non è
esattamente il motivo per cui lavoro. Così come non prendo molto sul serio il
concetto di pubblicità. Comincio a rapportarmi con il brand come se fosse
un’entità, con un’identità quasi di una persona. Per esempio, diciamo che Nokia,
per me, è come se fosse Michael Nokia o Adidas, Giovanni Adidas. E tengo
presente un altro insegnamento proveniente dalla musica: quando faccio il dj, e
la pista ha mille persone che ballano, per me non sono mille persone singole: è
quel gruppo nel suo insieme che costituisce il mio interlocutore. Di conseguenza,
partendo questo approccio mentale, riesco ad alleggerire e a rendere più fluido
il processo creativo che serve a mettere in scena i valori del brand, la sua riconoscibilità
e tutto ciò che serve a rappresentare, senza però cadere nel concetto: “noi facciamo
questo”. E’ una mentalità, non è una formula.

E quindi come riesci
ad unire le esigenze del cliente con la costruzione di storie emozionanti?
Ora
sono avvantaggiato perché il cliente ormai sa che se mi chiede qualcosa, deve
aspettarsi da me qualcosa che non è ciò che offre l’agenzia. Sicuramente io lavoro
moltissimo affinché il committente accetti che il linguaggio sia di positività,
di ironia, e che l’accoppiamento tra arte e design non debba essere
necessariamente troppo concettuale/spesso incomprensibile. Butto giù tutta una
serie di argomenti da un punto di vista di politica pre-progetto. Faccio in
modo che i clienti capiscano con me cosa sta accadendo, altrimenti quando ci si
trova di fronte alla rappresentazione, si corre il rischio di non capire quale
sia la relazione. In più, sono un gran sostenitore del paradosso, e in questo
Francesco Morace è stato per me un grande interlocutore, da un punto di vista
di legittimazione del mio modo di intendere il paradosso. Perché paradosso non
vuol dire tutto e il contrario di tutto: nel paradosso c’è un ordine, un
valore, una creatività. Non tutti hanno l’abilità di immaginare il caviale su
un cracker. Questi sono fattori che, se introdotti in una chiave logica e comprensibile
al cliente, diventano elementi di valore. Rimasi molto affascinato quando lessi
la biografia di Albert Einstein: lui non ha potuto attingere a talenti o a
risorse particolari, ha preso quello che era alla portata di tutti e invece di
fare a+b+c+d, ha provato a fare, con curiosità, c+b+d+a. Questo è un paradosso
nel mondo scientifico, nella matematica non si può dire 1+1 = 3, io però sono
un gran sostenitore del fatto che 1+1 possa fare 3. Penso che questa sia la
chiave di lettura di come la creatività possa essere abbinata al mondo della
comunicazione e di come questo sparigliare le carte possa essere valore e non
caos, organizzazione e non disorganizzazione. E’ un po’ come un tappeto: tu hai
una bellissima fantasia sul davanti, poi se lo giri vedi dei nodi molto complessi
che all’apparenza sembrano una confusione totale, però è dall’altra parte che
c’è il risultato.

La tua estensione
creativa sta arrivando anche a Londra. Come si combina la tua italianità con l’ambiente
creativo internazionale?
Dire Firenze, Londra, New York o Foggia è
relativo, se non per aspetti collegati al piacere di viaggiare, di respirare
altre dimensioni e di mangiare cibi diversi. Penso che a livello lavorativo
aprire uno studio a destra o a sinistra sarà sempre meno necessario, perché c’è
la Rete. Vorrei aprire il mio vero studio in Internet, anzi vorrei che ci fosse una
piazza-studio comune dove le persone curiose e che vivono in modo creativo come
me, e che non sono necessariamente direttori comunicazione delle aziende o
creative director delle agenzie, potessero incontrarsi, condividere, avere
visione e condivisione nello stesso momento, semplicemente anche stando a casa
propria. Andare a Londra è una questione pratica ma nel mio futuro non vedo la
necessità di avere più studi. Infatti mi sto concentrando moltissimo sulla
condivisione: per me iChat, sistema di trasmissione dati di Mac, è il mio
studio. Con iChat lavoro con persone che non ho mai conosciuto, e abbiamo un
grande rispetto reciproco del nostro lavoro: c’è trasparenza, coerenza, c’è una
relazione. Qualche volta scatta anche il desiderio di accendere la telecamera
così ci si vede. In alcuni momenti, invece, non è necessario sapere chi c’è
dall’altra parte, ma comunque ho interesse che quando mi arrivi il lavoro, io
possa dedurre che tipo di persona ci sia dall’altra parte. E’ un meccanismo
interessante.

Hai dichiarato che la comunicazione e l'arte si avvicineranno sempre più. Quali sono le ragioni? Intanto vorrei restituire senso alle parole. Comunicare significa dire qualcosa a qualcuno e l’arte ha sempre fatto questo, ha
sempre tentato di dire qualcosa attraverso metafore o rappresentazioni. Penso
che bisognerebbe tornare all’approccio umano ed umanizzante della comunicazione
e contestualizzare maggiormente il senso del comunicare rispetto al senso del
pubblicizzare. Attenzione: non sto demonizzando la pubblicità, il prodotto, il
consumo. Penso, però, che bisognerebbe riappropriarsi del senso delle cose e
restituire valore partendo dalle persone che siamo e non dai consumatori che si
vorrebbe che fossimo. Arte e comunicazione diventeranno sempre più la stessa
cosa, anche perché nella comunicazione delle aziende esistono dei budget che
spesso non ci sono nel mondo dell’arte. Ritengo che ci sia una grande opportunità
in termini di valore. Penso che sempre meno ci sarà il budget faraonico della
grande azienda per la grande agenzia, in una direzione one way, e tutto si
esaurisce nell’agenzia dove ci sono cento creativi ma tutti imbrigliati. Dunque,
probabilmente, esiste la possibilità di poter pensare alla comunicazione come
attività ricreativa e come attività di intrattenimento non necessariamente banale
e di cultura non per forza noiosa. Io sono una testimonianza vivente del fatto
che, attraverso una dote di creatività e una capacità di gestire le situazioni
a livello pratico, si possano produrre arte e comunicazione assieme e cominciare
a rendere, nel processo che Francesco Morace ha intuito nei consum-autori, un
ruolo attivo a chi abitualmente subisce la pubblicità. Questo nuovo modo di procedere
crea relazione, azione, cultura, modelli inaspettati. Chi ha detto che l’arte
deve essere solo nelle gallerie e la comunicazione solo nelle agenzie? Si ha un
processo creativo anche quando il signor x torna a casa ed apre il frigorifero e
si chiede cosa preparare. Vorrei smitizzare questa concezione del creativo come
se fosse quasi un’élite e vorrei ricordarmi e ricordare che l’essere umano, se
è arrivato a questo punto, è perché nasce creativo, nell’accezione del creare, del
mettere insieme. Quando facevo il Dj, ho imparato che semplicemente mischiando
in modo diverso cento dischi potevo ottenere cento serate diverse, cento
dimensioni diverse, eppure gli elementi erano gli stessi. E’ questo il punto su
cui bisognerebbe riflettere e soprattutto bisognerebbe saper immaginare un
futuro diverso, dove azienda, creativi, persone possano creare la famosa impollinazione,
dove il rimescolare in base alle doti e alla modalità porti allo stesso
risultato e mi sembra che questo sia molto utile anche alle aziende, che fino a
questo momento si sono raccontate con delle icone abbastanza datate. E’
arrivato il momento di dire: proviamo a fare qualcos’altro.

Felice_limosani

  • tiziana |

    Percorso interessante quello di Felice Limosani. Sostengo l’inevitabile fusion gia’ in corso fra il commerciale e l’artistico, due volti del processo creativo che a volte si fa fatica a distinguere. L’ibrido, poi, e’ un prodotto spontaneo dei nostri giorni: sia esso artistico, commerciale o culturale ci conduce sempre verso sviluppi piu’ complessi e dinamici.

  • tiziana |

    Percorso interessante quello di Felice Limosani. Sostengo l’inevitabile fusion gia’ in corso fra il commerciale e l’artistico, due volti del processo creativo che a volte si fa fatica a distinguere. L’ibrido, poi, e’ un prodotto spontaneo dei nostri giorni: sia esso artistico, commerciale o culturale ci conduce sempre verso sviluppi piu’ complessi e dinamici.

  • Gabriele Caramellino |

    @ Daniel
    Grazie per le osservazioni: raccontare una storia riorganizzando gli elementi sarà una fase sempre più interessante nei processi creativi.

  • Gabriele Caramellino |

    @ Daniel
    Grazie per le osservazioni: raccontare una storia riorganizzando gli elementi sarà una fase sempre più interessante nei processi creativi.

  • Daniel Kevorkian |

    L’aspetto più interessante credo sia nella capacità “combinatoria” che esperienze di vita come quella del sig. Limosani dimostrano, ovvero una figura di “creativo” come colui che riesce a proporre alternative e a raccontare una storia riorganizzando gli elementi. Grazie per aver condiviso con tutti noi pensieri non sempre presenti sulle pagine dei giornali.

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