Un caffè con Gaia Violo

Gaia Violo è sceneggiatrice di film e serie televisive. Attualmente, è sceneggiatrice per Disney USA. Negli Stati Uniti, ha lavorato come tirocinante nella writers’ room della serie tv C.S.I. Scena del Crimine (dove è anche apparsa in video nella stagione 15). Sony Pictures Television ha acquistato le sceneggiature di due serie tv da lei ideate. È membro dell’Albo degli Sceneggiatori d’America. Ha diritto di voto nella categoria delle sceneggiature in concorso ai Premi WGA Awards. Ha collaborato con la sceneggiatrice statunitense Bobette Buster. In Italia, ha lavorato in produzione nelle fiction televisive Ho Sposato uno Sbirro 2 e Cenerentola. Laureata in Lettere Classiche a Londra alla UCL – University College London, ha successivamente conseguito il Master biennale in Sceneggiatura Audiovisiva della UCLA – University of California a Los Angeles. Ha tenuto lezione al Master in International Screenwriting and Production dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nata a Palermo nel 1989, è cresciuta a San Cataldo (Caltanissetta, Sicilia). Vive e lavora a Los Angeles dal 2011.

Dall’entroterra della Sicilia a Los Angeles. Come ha reagito la tua famiglia quando hai deciso di volere fare la sceneggiatrice di cinema e televisione? «Fin da bambina, ho desiderato creare storie. All’età di 15 anni, ho iniziato a indirizzare questa mia passione verso il mondo della sceneggiatura. I miei genitori hanno avuto il tempo per abituarsi al fatto che sarei partita da San Cataldo. Già negli anni dell’adolescenza, inoltre, avevo iniziato ad andare a Londra durante l’estate, per imparare l’inglese. La mia famiglia mi ha lasciata libera e mi ha sempre supportata».

In questi anni, c’è una vera e propria golden age della serialità televisiva americana. Perché le fiction televisive americane hanno così tanto successo anche nel resto del mondo? «Rispetto al cinema, gli scrittori televisivi possono essere un po’ più coraggiosi. In questi ultimi anni, i grandi studios stanno proponendo, sul piano cinematografico, soprattutto sequel e remake, mentre la televisione ha la possibilità di esplorare l’umano un po’ di più e ha una varietà maggiore. Le serie tv sono tantissime e possono essere molto specifiche, qui negli Stati Uniti. Anche a livello di contenuti, si può andare più a fondo e si può essere più audaci nella scrittura di fiction tv, perché il formato televisivo è diverso da quello cinematografico e permette di esplorare meglio un personaggio, come ad esempio in Breaking Bad».

Variety – autorevole magazine sullo show business americano – ti ha inserita fra gli autori di cinema e tv più promettenti. Finora, il tuo percorso professionale è stato un mix di vari fattori: studio, lavoro, gentile e costante perseveranza, difficoltà da superare, delusioni, imprevisti. Cosa consigli a chi desidera intraprendere una vita lavorativa nel settore della creatività audiovisiva anglosassone? «Bisogna considerare questa attività come un vero e proprio lavoro. Se io dovessi lavorare soltanto quando sono ispirata, lavorerei appena una volta al mese. Bisogna lavorare in maniera costante: io, di solito, lavoro per circa 10 ore al giorno. Non sono una sostenitrice del fatto che il talento sia un dono sufficiente per potere lavorare. Se sei appassionato di qualcosa, lo insegui, impari le tecniche, diventi più bravo, vai avanti, ti confronti con persone che sono migliori di te. C’è una componente di arte, ma soprattutto c’è una grande attività di miglioramento tecnico delle proprie capacità lavorative».

In questo periodo, stai lavorando anche ad un progetto top secret della Disney, ma comunque è noto che stai scrivendo il sequel di una conosciuta storia Disney. Come ti stai trovando a lavorare con una delle maggiori factories di creatività al mondo? «Mi sto trovando benissimo, e non lo dico soltanto per motivi di public relations. È bello lavorare per una brand che ha un’idea chiara di che cosa vuole. A volte, per gli scrittori, il problema è non sapere dove andare, perché non si sa qual è la scelta giusta da fare. Durante questo lavoro con la Disney, mi sto confrontando con colleghi che hanno le idee chiare. In questo lavoro, metti te stessa, e saper comunicare le tue idee è fondamentale. Un’altra cosa che ho imparato in Disney, e che vale in ogni lavoro che faccio, è l’importanza di ciò che stiamo dicendo nel film o nella serie tv che stiamo scrivendo: significa fare qualcosa per cui valga la pena di spendere molto denaro, molto tempo, molta attenzione e molta energia. Mi sto divertendo nel lavoro che sto facendo».

Walt Disney (1901 – 1965) diceva: «Se puoi immaginarlo, puoi farlo». Al giorno d’oggi, nell’industria audiovisiva, dove è il punto di confine tra l’immaginazione e la realtà? «Nel mio lavoro, non faccio arte fine a se stessa, ma devo tenere conto delle persone per le quali scrivo e dei loro bisogni. Inoltre, devo tenere presente cosa chiede l’industria in questo momento. Quando scrivo qualcosa che proviene da me, l’immaginazione lavora in maniera più completa, come ad esempio quando ho scritto la serie tv Absentia, nata da un sogno che avevo fatto. Nel lavoro per Disney, invece, l’immaginazione si trova più nella fase di esecuzione che in quella di ideazione, perché si tratta di lavorare su qualcosa che già esiste, con una grande collaborazione di idee fra le persone con le quali sto lavorando in Disney: la realtà, in questo caso, è molto presente, e non è un fatto negativo: il confronto-scontro ti spinge a cercare una risposta che non è immediata».

Recentemente, hai dichiarato che la serialità televisiva americana sta diventando sempre più simile al cinema. «Sto imparando anch’io dall’esperienza di questi anni. Fino a qualche tempo fa, le serie procedurali erano molto in voga, con il mistero che veniva risolto alla fine della puntata: e questo format continua ad essere venduto bene fuori dagli Stati Uniti. I miei genitori, ad esempio, guardano serie tv come Castle e NCIS, che sono abbastanza semplici da seguire. Oltre a questo tipo di serie, oggi ci sono anche serie con una trama molto intricata e con budgets molto rilevanti, come Il Trono di Spade».

Cosa bisogna fare per rendere più internazionali le fiction televisive italiane? «Bisogna collaborare di più e confrontarsi maggiormente con le realtà esterne, lavorando meglio anche sui contenuti».

Ti piacerebbe lavorare in Italia? «Mi piace lavorare ovunque ci sia un lavoro interessante e per il quale valga la pena di impegnarsi, in Italia, negli Stati Uniti o in altri Paesi. Vado dove mi porta il lavoro. In questi anni, sto vivendo una bellissima avventura. L’Italia ha qualcosa in più perché lì c’è la mia famiglia».

La serialità televisiva lunga – quella, per intenderci, da 22 puntate a serie – è sempre più costosa da produrre. E uno dei trends più recenti è la diffusione delle miniserie. Pensi che questo trend continuerà? «Sì. La maggior parte della serialità a 22 puntate è di tipo procedurale, con gli esempi di NCIS, Castle, C.S.I. in quest’area della serialità. Ma al giorno d’oggi, molte serie tv sono cable, sono su Amazon, sono su Netflix, e la maggior parte del cable non riesce a sostenere una serialità di 22 puntate. Il trend delle miniserie continuerà anche perché è attraente per i produttori cinematografici e per gli attori di calibro maggiore. Tra un film e l’altro, per non rimanere fermi sul mercato, attori di un certo livello possono recitare in miniserie televisive interpretando storie di rilievo, senza dovere rimanere fermi su una serie tv per anni e anni».

Al giorno d’oggi, essere uno scrittore di audiovisivi è diventato un mestiere più complesso rispetto al passato, perché i pubblici sono sempre più diversificati e stanno cambiando anche le modalità di produzione e distribuzione. Come sta evolvendo il mestiere dello sceneggiatore? «Senza dubbio, sta avvenendo uno spostamento dal cinema alla televisione, dove c’è più lavoro. Al giorno d’oggi, non si producono più moltissimi film, e dall’altra parte c’è una scrittura televisiva di qualità sempre più elevata. Per chi desidera lavorare nella scrittura per la tv, inoltre, c’è una gavetta già abbastanza prefissata, a differenza del cinema dove c’è un percorso meno predefinito. In linea generale, più è elevato l’investimento economico su un certo prodotto audiovisivo, più le pressioni saranno forti e più persone saranno coinvolte nei processi decisionali. La dimensione internazionale, peraltro, sta diventando più rilevante: mi capita di parlare con produttori italiani che lavorano tra Italia e Stati Uniti, e con produttori tedeschi che lavorano a Londra, e si tratta di progetti interessanti, senza distinzione fra prodotti di serie A e serie B».

A livello economico, quanto riesce a guadagnare uno sceneggiatore di audiovisivi con alcuni anni di esperienza negli Stati Uniti? «Si può guadagnare bene. La questione non è il salario, ma la consistenza del lavoro: ad esempio, in caso di un lavoro fatto per la televisione, il contratto è determinato dalla serie per la quale si sta lavorando. In generale, lavorando per un network, si viene pagati un po’ di più. Allo stato attuale, non so quanto possa essere proficuo il mondo di Internet per gli scrittori: penso che sia un’area ancora in corso di esplorazione».

Avrai notato la diffusione dei servizi di video streaming erogati da Netflix e Amazon. Quale impatto stanno avendo le innovazioni tecnologiche di questi anni sull’industria audiovisiva? «Queste innovazioni cambiano il modo in cui si può raccontare una storia. Quando scrivo una sceneggiatura per le televisione, considero sempre quanti break pubblicitari bisogna inserire nella sceneggiatura, in modo tale da creare un cliffhanger [espediente narrativo in cui si crea un momento di suspence nella storia, NdA]. Se invece sto scrivendo un prodotto audiovisivo per Netflix, posso raccontare una storia senza dovere utilizzare la struttura canonica in quattro o cinque atti. Cambia il modo in cui scrivo la storia. Se osserviamo bene, notiamo che in questi anni le serie in streaming hanno una vita abbastanza lunga. Sono pochissime le serie che Netflix ha cancellato. Scrivendo una serie che andrà in onda, ad esempio, su Netflix, bisogna costruire una nuova audience, e per fare ciò, è necessario del tempo. Lavorando per un network, invece, bisogna consegnare la storia in tempi più rapidi».

Cosa pensi delle web series scritte da persone che tecnicamente non sono sceneggiatori? «Da qualche parte bisogna iniziare. Le web series sono un buon modo per avere un prodotto da mostrare, per iniziare ad avere un pubblico, per ottenere un agente. È un fenomeno interessante. Ovviamente, la web series può o non può essere nelle corde di un aspirante sceneggiatore. Nel mio caso, non è stato l’approccio iniziale al cinema. Ma per chi ha uno spirito di auto-imprenditorialità, può essere un modo per entrare in contatto con il mondo degli audiovisivi e per farsi notare. La maggior parte degli scrittori che conosco non ha iniziato dalle web series: sono soprattutto attori-scrittori, registi-scrittori. Gli sceneggiatori puri, ovvero coloro che sono impegnati soltanto nella scrittura di audiovisivi, difficilmente intraprendono il mondo delle web series».

Durante questi anni, hai avuto modo di incrociare anche diverse celebrities, come Megan Fox e Jim Carrey. Qualche aneddoto sulla tua vita lavorativa? «Ci sono stati vari momenti alla Il Diavolo veste Prada. A 19 anni, sono stata negli Universal Studios come una turista, anche se stavo visitando gli Stati Uniti con i miei genitori per cercare un buon corso in Sceneggiatura Audiovisiva. Due anni dopo, sono tornata lì per lavorare, con il badge che riportava il mio nome e cognome: è stato un momento che non dimenticherò. Un altro episodio: durante il mio primo tirocinio, ero stata assegnata alla reception, per controllare gli appuntamenti dei managers e dei produttori con le persone esterne: un giorno, un uomo entra con disinvoltura nell’edificio, senza fermarsi alla reception. L’ho fermato e gli ho chiesto chi era. Lui ha risposto che era David. E continuava a camminare all’interno dell’edificio: l’ho rincorso e l’ho fermato nuovamente, fino a quando ho scoperto che era David Russell: un regista candidato al Premio Oscar, con il film American Hustle. In passato, ho avuto diversi momenti come questi, nei quali non riconoscevo subito le persone affermate del mondo cinetelevisivo».

Hai un manager e tre agenti, che lavorano con la stessa agenzia di Steven Spielberg. Qual è il tuo rapporto con queste persone? «Loro sono un team che indirizza un po’ le mie scelte lavorative: mi danno consigli su cosa accettare e cosa non accettare a livello lavorativo. Sono estremamente utili perché negoziano i miei compensi: legalmente, io non posso stabilire la mia retribuzione. Praticamente, tutti coloro che lavorano negli audiovisivi a Los Angeles hanno un agente. Da queste parti, se stai lavorando devi avere almeno un agente. Dal punto di vista umano, invece, io sono una sostenitrice del fatto che si debba avere dei mentori: ad esempio, quando devo prendere delle decisioni di lavoro, chiedo il loro parere».

Quale storia ti piacerebbe scrivere? «Avrei voluto scrivere una versione rivisitata de La Bella e La Bestia, ma non è stato possibile. Ho un’idea originale che mi piace moltissimo: la scriverò dopo avere completato l’impegno con la Disney».

Quale tipo di immaginario stimola una città come Los Angeles? «Los Angeles è una città un po’ strana per una persona europea, ma è una città che impari ad amare. È una città molto grande, dove non c’è una vera e propria zona centrale, a differenza di Londra dove c’è un centro storico in cui poter fare una passeggiata. Le aree di Los Angeles sono collegate da una rete di autostrade urbane. Rispetto alla sede della Disney, io abito esattamente dall’altra parte di Los Angeles. Ogni mattina, impiego circa un’ora, con l’automobile, per arrivare negli studios. All’inizio, questa città mi ha presa alla sprovvista, ma con il passare del tempo mi sono resa conto della sua vitalità. La sua collocazione geografica, inoltre, rende facilmente raggiungibili diversi luoghi, come il mare, le montagne, San Diego, Las Vegas. Anche se è strutturata in una maniera che sembra disumana, le persone che abitano a Los Angeles sono umane, cercano di darsi una possibilità lavorando sodo, e cercano di farcela, sia nel settore dell’intrattenimento sia negli altri settori lavorativi. Qui, inoltre, ci sono diverse culture gastronomiche e c’è una cultura dello sport molto radicata. Bisogna imparare a vivere in questa città: se la conosci bene, ti può dare tanto».

Il cinema rimane un medium affascinante ma forse non ha più la stessa valenza che aveva in passato. Come sta cambiando Hollywood per continuare a sopravvivere? «Dovremmo essere più coraggiosi nelle storie che raccontiamo ed essere più diversi rispetto agli schemi classici: è un tema di cui si parla molto in questo momento, nell’ambiente hollywoodiano. Le persone non vanno a vedere soltanto sequel e remake: c’è spazio per raccontare ancora storie interessanti e fatte bene. Un film che mi ha emozionata è stato Arrival: un film di fantascienza dal tono molto umano. Bisogna diversificarsi e rischiare un po’ di più: capisco che non sia facile, perché in ballo ci sono investimenti economici, carriere, famiglie».

Di solito, quali film e fiction televisive guardi? «Il film La La Land mi è piaciuto; e come dicevo prima, anche Arrival è un bel film. Sono cresciuta guardando i film di Hitchcock con mio nonno, e i thriller mi appassionano sempre. Se non sono impegnata con il lavoro, mi piace guardare i vecchi film in bianco e nero, e le vecchie commedie romantiche mi fanno rilassare. Fra le serie televisive, mi sono piaciute molto Stranger Things e Homeland. Ho apprezzato il modo in cui è stata scritta la serie tv Hannibal. Quando torno a casa, in Sicilia, si crea una situazione curiosa e divertente: i miei genitori vedono serie televisive e film, mentre io voglio vedere shows come MasterChef».

Sei membro dell’Albo degli Sceneggiatori d’America e puoi votare per i Premi WGA Awards. In tema di premi, quest’anno la cerimonia degli Oscar si svolgerà domenica 26 febbraio: qualche indizio sui prossimi vincitori degli Academy Awards? «Il meccanismo di voto per i Premi Oscar è abbastanza complesso. Quest’anno, io posso votare per la prima volta nella sezione delle sceneggiature dei Premi WGA Awards. Uno dei vantaggi dell’essere membro dell’Albo degli Sceneggiatori d’America è la possibilità di leggere tante sceneggiature di film in concorso, e devo dire che ce ne sono alcune fatte veramente bene. I lavori premiati con il Golden Globe sono possibili vincitori di Oscar. Penso che Denis Villeneuve, regista di Arrival, abbia un talento incredibile».

Ti piacerebbe vincere un Oscar? «Sì!».