Un caffè con… Massimo Cotto

Ultima intervista del ciclo 2008 “Un caffè con…”

Massimo Cotto è giornalista e
scrittore. Conduce, assieme a Flavia Cercato, il programma I Capitalisti su Radio Capital. Ha scritto a lungo per quotidiani e
riviste italiane ed internazionali. Ha condotto programmi radiofonici e
televisivi in Rai, dove ha lavorato per vent’anni e dove è stato direttore
artistico di RadioUno (2000 – 2003). Successivamente, ha condotto per un anno
il programma Rondò su Radio24 e ha
diretto per due anni la rivista Rockstar.
Ha pubblicato oltre trenta libri di argomento musicale e due romanzi.

La radio e la musica hanno la
capacità di entrare con naturalezza nella vita quotidiana. La radio come
colonna sonora della giornata e la musica come colonna sonora dell’esistenza.
Quali sono i motivi?
La radio ha la
sua duttilità d’ascolto: è un mezzo che ti può accompagnare sempre. Ad esempio,
quando sei in macchina e vai al lavoro, tanto che negli ultimi anni si è
diffusa nei palinsesti radiofonici una vera e propria categoria: il “driving
time”, ovvero quelle fasce di ascolto in cui si suppone che le persone siano
prevalentemente in macchina perché stanno andando al lavoro o da qualche altra
parte. La musica ha una forza dirompente e straordinaria che penso sia legata a
motivi ancestrali: pensa semplicemente al primo battito del cuore, al suono che
riporta ai movimenti essenziali della vita. E’ inevitabile che la musica
accompagni la nostra esistenza, anche se io preferirei parlare di musica non
solo come colonna sonora, per quanto sia giusta la tua definizione, ma proprio
come parte della nostra vita: la musica non è soltanto qualcosa che noi
ascoltiamo mentre facciamo qualcos’altro, è anche e soprattutto qualcosa che ci
cambia la vita, che agisce da spartiacque, che se ti va bene ti divide la vita
fra un prima e un dopo.

Hai dichiarato che, a volte, il
bisogno di fare musica nasce da un disagio interiore. Perché?
In genere, chi fa arte agisce perché ha
qualcosa da tirare fuori. Quando è artista vero, l’artista è una persona che
riesce ad esprimersi meglio attraverso le sue opere rispetto a quando comunica
con qualcuno nella vita privata. Perché ha una rabbia, un disagio, anche
semplicemente un senso di diversità. Quando si inizia a muoversi nel mondo
dell’arte, lo si fa o perché non si condivide completamente il mondo in cui si
è costretti a vivere oppure perché in qualche modo si riesce a vederne delle
sfumature, dei tratti, delle bellezze o delle storture che invece una persona
normale non riesce a captare, a percepire. Penso, per esempio, al fatto che ci
sia tantissima musica dal vivo a Torino, una città che presenta indicatori di
disagio e che per molti anni si è mossa sulla monocultura dell’industria
automobilistica. E dunque chi ha, in genere, qualche malumore o malessere da
esprimere, come azione più immediata può imbracciare una chitarra, trovare una
cantina e cominciare a cantare o a suonare.

Scrivi di musica da molti anni. Come
è cambiato il giornalismo musicale dagli anni Ottanta ad oggi?
E’ cambiato completamente perché è cambiato
completamente anche il modo di fruire la musica. Negli anni Ottanta bisognava
anche faticare per certe cose, pensa agli spazi non certo vasti che i
quotidiani dedicavano alla musica; e non va dimenticato che il mondo radiofonico
era appena uscito dall’epoca d’oro delle radio libere. Negli anni Ottanta, la
musica era importante ma in Italia non era considerata così importante, perciò
le riviste che nascevano in quegli anni avevano un seguito quantitativamente
limitato ma erano, per molti, l’unico modo per avere notizie che altrove non si
trovavano. Sembrava un altro mondo: i dischi arrivavano molto più raramente e c’erano
soltanto pochi importatori. Oggi, invece, il giornalismo fine a se stesso, in
cui ci si avventura in tecnicismi esasperati, non ha più ragion d’essere: oggi,
in tempo reale e anche grazie ad Internet, tutti sanno abbastanza su un
artista. Se si vuole fare giornalismo, al giorno d’oggi, bisogna trovare e dare
qualcosa di più: andare direttamente alla fonte, laddove sia possibile, e
provare a parlare strettamente di musica. Pensa, per esempio, ad una rivista come
“Rolling Stone”: nata nel 1967
in America con caratteristiche molto più sociali che
musicali, è poi diventata una autorità nel mondo della musica. Ma in questi
ultimi anni è cambiata drasticamente, diventando una rivista dove si parla
anche di musica ma non solo di musica.

Hai viaggiato molto all’estero e hai
tradotto in Italia numerosi artisti, tra cui Bob Marley, Bruce Springsteen, Tom
Waits e Janis Joplin. Dal punto di vista musicale, questi artisti cosa hanno di
simile e di diverso?
Probabilmente la
caratteristica comune è che ognuno di loro ha vissuto e ha portato dentro di sé
un pezzo del grande sogno del rock, un pezzo di quella equazione meravigliosa
che oggi si tende a dimenticare, ovvero rock=redenzione, oppure, in qualche
modo, il rock come musica che va oltre la musica. Penso a Bob Marley, che con
il suo reggae portava avanti la nuova alba del Rastafarianesimo e che non a
caso ci ha lasciato come testamento una canzone dal titolo “Redemption Song”.
Penso a tutt’oggi a Springsteen: anche lui ha pensato che il rock fosse il più
grande sogno che si potesse applicare alla vita. Tom Waits ha vissuto nel suo
mondo e attraverso questo mondo ha provato a portare alla luce, come in Italia
ha fatto De André, tutta quella umanità disperata e anche un po’ disparata che
abita le commedie umane, ovvero i figli venuti un po’ male e cresciuti all’ombra
del sogno americano. Janis Joplin è stata colei che più di tutti ha cercato di
cantare in maniera anche dolorosa e straziante la vita, di cantare nelle
canzoni la vita che stava vivendo, e di ottenere attraverso la musica quel
riscatto che il suo fisico e la sua esistenza non le davano. Ecco, per ognuno
di questi artisti la musica non è fatta soltanto di note ma è fatta anche un
po’ di sogni.

Il mondo della musica è stato
rivoluzionato dall’avvento di Internet e delle tecnologie digitali. Da una
parte, è stato modificato il tradizionale modello di business, e dall’altra la Rete
ha permesso l’emergere
di nuove proposte senza i tradizionali canali di intermediazione. Verso quale
direzione si dirige il mondo della musica?
Caratterialmente sono un ottimista, e vado controcorrente. Tutti,
invece, si stanno affannando, da qualche tempo, a predire un futuro drammatico
per la musica. La parte più importante dell’avvento della Rete è costituita
dall’aver ridato centralità all’artista,
e inoltre attraverso
la Rete
si possono scavalcare tutti quei canali che prima erano giudicati imprescindibili.
Oggi il prodotto può arrivare direttamente dal produttore al consumatore: non è
poco. E non è un caso che molte delle ultime star siano nate attraverso
la Rete. Dall’altra parte,
l’elemento negativo è la dispersione del diritto d’autore, che dovrebbe essere
un diritto inalienabile. E si tende a considerare – sbagliando – che
la Rete sia un canale
assolutamente democratico perché consente a tutti di appropriarsi della musica.
Questo è un percorso che ha già portato a serie difficoltà di sopravvivenza e andrebbe
un po’ regolamentato, il problema vero è capire come. Perché intervenire per
restaurare o per correggere è peggio che prevenire affinché certe cose non
accadano.

Come è nato il progetto di Macy.it? La mia idea era quella di tornare ai vecchi
speciali televisivi di un tempo, dove si dava spazio all’artista per confessarsi
in una lunga intervista e per cantare dal vivo, spesso soltanto in acustico.
Avrei potuto proporre un programma musicale in televisione ma avrei avuto molte
difficoltà a farmelo accettare. Allora mi sono detto: “perché non proviamo a
fare una provocazione e a portare nel mondo nuovo della Rete un linguaggio ritenuto
obsoleto come quello della televisione generalista?” Per ora sta andando bene:
siamo sopra i 100.000 utenti unici al mese, un buon risultato per essere una web
tv neonata e che non è una filiazione di qualcos’altro. Siamo contenti anche
perché ci sembra di portare avanti un discorso di qualità. Non andiamo ad
intervistare soltanto gli artisti di nome ma andiamo anche da quegli artisti,
secondo noi validi, che non hanno ancora un ruolo di primo piano.

Sei presidente della Commissione Artistica di Sanremo Lab, la struttura
del Festival di Sanremo dedicata ai giovani musicisti. Cosa consigli ad un
giovane che vuole fare musica?
Sulla base della mia esperienza, direi di
iniziare a rendersi conto che la parola ‘successo’ viene prima della parola ‘sudore’
solo sul dizionario. Bisogna faticare molto, può accadere di inciampare, e la
cosa più importante è sapersi mettere in discussione. Io capisco che l’artista,
soprattutto quando è giovane e non ha successo, viva una dicotomia
apparentemente insanabile: deve convivere con una voglia incredibile di avere
successo, e per avere successo deve credere fermamente in se stesso, ma al
tempo stesso deve essere umile per non andare subito fuori strada. Per muoversi
bene su questa altalena, è necessario trovare un equilibrio tra umiltà e
consapevolezza dei propri mezzi, tra voglia di fare tutto di testa propria e
ascoltare anche i consigli degli altri. Nel caso specifico dei ragazzi di
Sanremo Lab, ciò che dico loro è: “il sogno vero non è arrivare a Sanremo, ma
arrivare a Sanremo e lasciare un segno”. E’ successo a molti di arrivare a
Sanremo e poi scomparire. Se ti va male, non hai più una seconda possibilità. Se
ti va bene, ce l’hai dopo tre o quattro anni. Ci si deve arrivare quando è il momento.
A me capita di avere ragazzi di grande talento che però non sono ancora pronti
e rischierebbero di bruciarsi andando a Sanremo. Perciò suggerisco sempre, soprattutto
ai giovani, di aspettare un anno o due per mettere bene a fuoco il proprio
progetto.

Massimo_cotto


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    caro Massimo, ricordo con affetto gli anni di “mucchio Selvaggio” dove il lavoro era tanto, ma l’allegria di casa. Ricordo la tua precisione e diligenza, io dipendevo da Labianca, ed ero tutta rock rock rock. Tu , allora eri più moderato nelle scelte ed affrmazioni, e davi solo confidenza a chi volevi. Ti ringrazio per avermi insegnato il rigore e le buone maniere . Con stima . Nella

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    caro Massimo, ricordo con affetto gli anni di “mucchio Selvaggio” dove il lavoro era tanto, ma l’allegria di casa. Ricordo la tua precisione e diligenza, io dipendevo da Labianca, ed ero tutta rock rock rock. Tu , allora eri più moderato nelle scelte ed affrmazioni, e davi solo confidenza a chi volevi. Ti ringrazio per avermi insegnato il rigore e le buone maniere . Con stima . Nella

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