Terzo incontro del 2010 per le interviste "Un caffè con…"
Catterina Seia, formatasi in ambito economico e sociologico, ha lavorato dal 1980 al 2009 in banche del Gruppo UniCredit. Il suo percorso professionale ha attraversato le aree Organizzazione, Marketing e Personale fino alla guida della Direzione Comunicazione di UniCredit Private Banking. Nel 2004 ha ideato – e condotto fino al dicembre 2009 – UniCredit&Art, il progetto internazionale per la gestione integrata degli investimenti culturali del Gruppo UniCredit. Da gennaio 2010, prosegue la sua ricerca come cultural manager indipendente, seguendo progetti di sviluppo sociale territoriale attraverso la cultura. Collabora con università e testate giornalistiche sui temi del rapporto tra arti ed organizzazioni.
Dal 2004 al 2009, lei è stata responsabile del progetto
UniCredit & Art, attraverso cui è stato proposto un modello di cooperazione
tra pubblico e privato per la gestione degli investimenti culturali. Come si è
sviluppata l’interazione fra un gruppo bancario italoglobale come UniCredit e
le istituzioni territoriali italiane ed estere? Siamo partiti nel 2003, nel
pieno processo di aggregazioni – diventate poi internazionali- che hanno
condotto il Gruppo ad una razionalizzazione degli
investimenti con un orientamento
funzionale ai nuovi obiettivi di posizionamento glocale. La sfida che abbiamo colto è l’aver compreso le potenzialità
dell’attuare, come per ogni altra area nell’organizzazione, una vera gestione
strategica e integrata degli investimenti culturali che comprendeva anche il
vasto patrimonio storico-artistico: un asset economico rilevante, ma in primo
luogo un capitale simbolico, un patrimonio d’identità, che rifletteva le storie
delle realtà confluite del Gruppo, nel quale riconoscere e riconoscersi, uno
strumento di dialogo interculturale dentro l’impresa e con le comunità. Il progetto è stato ideato e realizzato con estrema
linearità e sistematicità. Ci hanno guidati le riflessioni sui temi cardine
dell’economia della conoscenza, temi che oggi stanno assumendo un peso
crescente nell’agenda politica europea. Solo attraverso una
condivisione di pensieri eterogenei e di qualità, si supporta il processo di
crescita coesa e sostenibile, il miglioramento continuo, quindi
l’innovazione. La cultura ha un valore ben più ampio di quanto fino ad oggi
abbiano attestato i modelli econometrici. Rende vitale un eco-sistema
territoriale. Investire in cultura è quindi interesse per l’impresa che
crea il presupposto per il suo successo, nel tempo. Noi abbiamo agito di conseguenza. Nei diversi Paesi abbiamo
stabilito un dialogo con le istituzioni territoriali per individuare quale
potesse essere il ruolo sociale dell’impresa
nei piani di sviluppo e abbiamo scelto un chiaro campo d’azione sul
quale concentrare le energie. In coerenza con la nostra missione, ci siamo
focalizzati sull’accessibilità alla cultura e sulla creazione di pubblici
sempre più consapevoli, quindi sull’educazione attraverso l’arte
e sulla costruzione di opportunità per i giovani. Altrettanto semplice nei meccanismi è stato il modello
operativo: una logica
di collaborazione basata sulla condivisione di strategie, su una partnership
attiva e quindi non semplicemente sull'alleanza con alcune istituzioni
culturali di particolare interesse e prestigio, ma su una vera e propria
co-progettazione.
L’accostamento tra arte ed impresa si è fatto sempre più
frequente negli ultimi anni. Cosa può fare l’arte per migliorare le dinamiche
delle organizzazioni aziendali? Sì, è frequente. Oggi si richiama molto la
dimensione del neo-mecenatismo: facile e seducente perché stabilisce un
parallelo esplicito con la munificenza dei prìncipi rinascimentali, ma a mio
avviso nostalgica e strumentale, lontano dallo spirito del nostro tempo. I
mecenati operavano in un mondo pre-industriale, in cui gli artisti dipendevano
dal potente di turno. Oggi l’arte ha un forte radicamento economico e sociale. E’ chiaro come la cultura sia migrata alla base della catena
del valore e che le scelte, comprese quelle di consumo, siano identitarie. Ed è
quindi crescente la scelta della cultura per comunicare l’impresa al mercato;
soprattutto per l’arte visiva contemporanea, così “fresca” e “glamour” per un
certo pubblico. E’ normale cadere quindi nella trappola dell’effimero, della
ricerca della visibilità di breve termine, a volte a costo inferiore rispetto al
classico advertising, misurando l’efficacia dell’azione in centimetri di
rassegna stampa. Ma sono certa che la presenza di un logo sulla comunicazione
di un evento culturale non costruisca autorevolezza e reputazione, se non si
lavora sulla strategia, sulla narrazione, costruendo significati in coerenza
con la cultura d’impresa, con i valori, con i messaggi interni ed esterni. Ritengo comunque che
il rapporto sia parzialmente esplorato nelle due direzioni e che sussista un
enorme potenziale di sviluppo. Due sono i quesiti per me centrali, che troveranno a mio
avviso mediazioni anche per la carenza endemica di risorse. Cosa può rappresentare l’impresa per la cultura? Molto più
di un bancomat al quale attingere facendo pressioni per consenso territoriale. Ma soprattutto cosa le arti possono offrire alle
organizzazioni e alle loro persone, in termini di conoscenze, competenze e
capacità manageriali?
L’attuale crisi economica ha fatto emergere, in modo
evidente, la distanza del mondo finanziario dall’economia reale. L’arte,
consapevolmente o meno, ha sempre cercato di comunicare qualcosa a qualcuno.
Cosa possono imparare i manager dal mondo della creatività artistica? Il punto è interrogarci sulle qualità
manageriali e gli stili di leadership che necessitano per il futuro. Ci muoviamo in contesti a crescente instabilità e velocità. La capacità di gestire la
complessità è un fattore chiave. Implica visione, flessibilità, apertura mentale,
gestione delle risorse, che per definizione sono scarse. L’arte ha uno straordinario potere conoscitivo e maieutico.
Tutti possiamo meravigliarci, non solo contemplando la bellezza, ma della
densità di sollecitazioni che ci stimolano la produzione di idee e dilatano le nostre percezioni.
Attraverso le metafore siamo in grado di “trattenere” i messaggi e tradurli in
altri contesti. L’esperienza dell’arte favorisce le intelligenze multiple,
ovviamente in primis l’intelligenza estetica, che include pienamente la
dimensione etica, ed esprime la capacità di guardare, guardare oltre, anche
dove non vediamo. L’arte è una palestra nella quale esercitiamo le nostre
sinapsi ai collegamenti e impariamo ad apprendere e a comprendere, nel senso
etimologico del termine. L'arte libera energie e
ci mette in relazione con l’altro da sé, con la diversità: vera ricchezza della
società del nostro tempo e quindi delle nostre imprese. Parla alle persone e
delle persone, investendo la sfera cognitiva, emotiva e relazionale, favorendo quindi lo sviluppo di conoscenze,
competenze, capacità trasversali, nonché nuovi metodi per lo sviluppo
organizzativo. Su queste basi, ho spinto in questi anni la mia ricerca
sull’art based learning, concentrandomi principalmente sui linguaggi artistici contemporanei che,
esulando dai codici consolidati e lavorando sulla sperimentazione, impongono la
messa in discussione degli schemi precostituiti. Sono convinta che le istituzioni culturali siano potenziali
hub e possano divenire luoghi di apprendimento permanente nel quale una
comunità economica possa attingere visioni e confrontarsi anche nell’ottica di
ripensare valori, visioni e modelli organizzativi, di consumo e di relazione,
con tutte le intelligenze che vi gravitano. Per me è irrinunciabile il confronto con gli artisti, con la
loro visione spesso anticipatrice, con il loro sguardo trasversale e le
prospettive inattese che ci pongono. Ritengo che il modello della sponsorizzazione sia ampiamente
superato e che questa nuova frontiera possa cambiare il rapporto tra impresa e
istituzione culturale.
In Italia, la cultura e l’arte sono argomenti di cui solitamente
si discute o in maniera retorica o in maniera sbrigativa. Quale potrebbe essere
un modo per parlare di questi temi in maniera realmente innovativa? Non
utilizzarli per mera autopromozione. Andare al di là del concetto di
valorizzazione. Abbassare i toni del sovraccarico informativo a favore di un
migliore investimento nella progettualità e nelle ricadute positive che
l’investimento in cultura deve prevedere
e poter creare. Agire sulla creazione di
un solido sistema, muovendosi in primo luogo sulla qualità della formazione e
del confronto internazionale. Finanziare la ricerca che non va abbandonata in
periodi di difficoltà, nemmeno nei linguaggi culturali, perché è da essa che
nascono le idee per il suo superamento. L’Italia esporta talenti, ma non si legge una strategia
Paese sulle industrie culturali creative e neppure sul coordinamento con le
politiche di welfare; il tema è assente dal dibattito politico.
Lei ha appena concluso una trentennale esperienza lavorativa
in UniCredit per dedicarsi ad un progetto di sviluppo territoriale attraverso
la cultura. Può anticiparci qualcosa? Arriva un momento nella vita in cui si è
maturi per l’emancipazione istituzionale, si compiono dei cicli e se ne aprono
altri. Quest’anno, con l’inevitabile arrivo dei miei cinquant’anni,
ho deciso di investire il capitale sociale della mia esperienza a favore di progetti di sviluppo locale
attraverso la cultura. Avevo in programma di dedicarmi prevalentemente ad una
realtà nella quale riconosco le mie radici, ma all’annuncio della conclusione
del mio impegno con il Gruppo UniCredit, sono stata sollecitata, a sorpresa, da diverse
pubbliche amministrazioni per studi di fattibilità in contesti caratterizzati
da analoghi elementi: risorse non compiutamente espresse a sistema, ovvero
patrimonio antropologico, naturalistico, storico, artistico non a sistema;
volontà della pubblica amministrazione di varare strategie di rigenerazione
territoriale, attraverso il coinvolgimento degli attori sociali, in primis i
giovani. Quindi metto in moto ciò che penso sia il mio valore: la
costruzione di competenze, di piattaforme e programmi di cooperazione, la messa
a sistema delle risorse funzionali al ridisegno urbano. Il fermento trovato nei diversi progetti mi ha fatto capire
che in questo tempo che ci appartiene, ma che consideriamo periferico rispetto
a un tempo centrale, ci sono persone con idealità, volontà e qualità
superiori a quanto immaginiamo. Sto adottando metodologie che superino gli aspetti di marketing
territoriale, per un’azione più
pervasiva e più coerente con la società della conoscenza in cui viviamo. Le energie del mio team sono concentrate soprattutto sugli
studenti, risorse strategiche per dare un futuro al Paese. Un’anticipazione: parte SusaCulture Project, che ha
epicentro in Val di Susa, in Piemonte. Il progetto, varato con giovani eccellenti, assumerà a breve
la forma di fondazione a capitale privato con una governance che coinvolge il
pubblico. Il piano di lavoro? Supporto strategico e di competenze alla
pubblica amministrazione, protocollo di intesa con i licei per le attività
interdisciplinari per la creazione di saperi trasversali, accordi di
collaborazione con centri di ricerca e formazione internazionali, pubblicazioni
per la diffusione di conoscenza. Il mondo verrà nella Valle e la Valle
andrà nel mondo.