In tempi di smarrimento generale come quelli attuali, le "certezze" della modernità sono sempre più deboli e al giorno d'oggi, molto spesso, ci si sente disorientati di fronte ai numerosi cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo.
Il futuro non è più quello di una volta, per dirla con una battuta. Una battuta che oggi è diventata una constatazione di fatto.
La struttura stessa dell'immaginario vive un innegabile cambiamento, che da alcuni anni è oggetto di analisi da parte dei massimi studiosi internazionali sul tema. Tra i maggiori centri di ricerca su queste aree, si può annoverare il CEAQ di Parigi (Université René Descartes-Sorbonne Paris V), fondato nel 1982 da Michel Maffesoli e Georges Balandier.
Tra le attività del centro, ci sono anche collaborazioni con altri studiosi e realtà del mondo della ricerca. Come sappiamo, si tratta di una strategia ormai imprescindibile per produrre analisi di qualità e convalidate a livello internazionale.
Per giovedì 10 maggio 2012 a Parigi (informazioni pratiche nella locandina qui sopra), il CEAQ ha organizzato un incontro per discutere l'evoluzione del rapporto tra media ed immaginario. Parteciperanno alcuni tra i massimi studiosi sul tema, tra i quali Michel Maffesoli, Edgar Morin, Alberto Abruzzese, che affronteranno questi temi con un approccio all'incrocio tra filosofia, sociologia e mediologia.
In vista dell'incontro parigino, abbiamo chiesto ad Alberto Abruzzese (dal 2005, docente di Sociologia della comunicazione all'Università IULM di Milano) alcuni approfondimenti sui mutamenti della vita quotidiana e dell'immaginario collettivo in questo momento storico.
Nel suo recente libro Il crepuscolo dei barbari (Bevivino editore, Milano-Roma 2011) lei ha scritto:”L’immaginario può essere colto soltanto come fenomeno comunicativo sempre in atto, quindi tanto esteso ed intenso da coprire distanze e profondità incommensurabili per le capacità settoriali della ragione umana e per la delimitata sapienza delle sue discipline”. Oggi, in quale punto della storia dell’immaginario ci troviamo? Vediamo di praticare una differenza peraltro impossibile tra due modalità di immaginario in realtà inseparabili. Una riguarda il mondo esterno (per così dire terrestre, poiché il suo abitare è simile per visibilità e concretezza agli esseri animali, vegetali e inorganici), là dove una miriade di testi – orali, scritti, iconici, audiovisivi – nascono, esistono e si accumulano aggregandosi in canali, lande e costellazioni spazio-temporali che comportano non solo la loro più o meno stabile “apparenza” sensoriale ma anche, come condizione stessa del loro esserci, la fluttuante inscrizione dei pubblici che li alimentano e ne sono alimentati. L’altra riguarda il mondo interiore, per così dire mentale e dunque esistente nella (e grazie alla) facoltà immaginativa dell’individuo in virtù degli apparati psicofisici del suo corpo e della sua carne. L’estensione e intensità di questo mondo interiore è insondabile, dotato di vita concreta in ciascuno di noi, noi che siamo tuttavia ciechi di fronte al suo tutto. Infine, questo secondo mondo è il motore del primo e il primo del secondo in base a una potenza creatrice che si intrattiene con i mezzi espressivi forniti dagli apparati mediatici.
Per intendere la potenza che qui si instaura nel rapporto tra singoli e collettività (istituzioni del sapere, industria dei consumi, lavoro intellettuale, comunità, moltitudini), l’immagine che può aiutarci è vicina a quella del Leviatano in quanto unico corpo composto di una massa incommensurabile di individui. Questa raffigurazione è tuttavia inchiodata ad una idea di collettività infissa nella soggettività moderna. Molta carne umana ne resta esclusa e va alla deriva.
Lei sostiene che il capitalismo può essere attaccato soltanto da qualcosa alla sua altezza. Che cosa è stato così forte da poter attaccare il capitalismo in questi anni? Si può dire che il capitalismo possa essere attaccato soltanto da qualcosa alla sua altezza ha un senso restando nella dimensione dei conflitti moderni improntati alla lotta di classe e all’idea centrale di un modo di produzione capitalista che aliena il lavoro e la persona. In questo senso, per un tratto della storia otto-novecentesca (da Marx a Tronti) aveva senso contrapporre il lavoro al capitale (anche se proprio il conflitto tra capitale e lavoro è stato una molla dello sviluppo e progresso della società moderna e dei suoi imperialismi).
Ma se ritorniamo a prima dei processi che sono alla radice del capitalismo industriale e tecnologico – e se pensiamo al passaggio dalla sovranità aristocratica e statale alla sovranità del capitalismo globale e infine alla sovranità nichilista del potere finanziario che oggi minaccia la vita quotidiana – allora è necessario nominare diversamente ciò che dalle culture moderne è stato definitivamente chiamato capitalismo. Allora bisogna parlare di volontà di potenza come sostanza comune alla natura umana e non umana. Vale a dire che la violenza del più forte sul più debole – che la volontà di potenza produce in modo naturale, in quanto necessità di sopravvivere all’altro per abitare il mondo – avanzando nel tempo, dalle origini primordiali dell’essere umano ad oggi, ha avuto diverse strutture funzionali, diverse forme simboliche, diverse rappresentazioni sociali. Dal Sacro a Dio, da Dio allo Stato, dallo Stato alla Finanza. La sovranità necessaria a dare senso ai regimi di potere è immersa nella generalità del genere umano: servo o padrone che sia.
L’attuale momento storico sembra rappresentare un momento di dissipazione per la civiltà occidentale. Chi sono e cosa rappresentano i barbari in questa fase della civiltà umana? Ho scritto Il crepuscolo dei barbari per sbarazzarmi della dialettica tra barbaro e civilizzato, alla quale ricorrono le opposte tesi sulla tecnologia come disumanizzazione o come liberazione dell’essere umano. Ho cercato di marcare la sostanziale differenza tra un ragionamento sulla storia delle civiltà, sul loro alternarsi e sui loro conflitti e meticciati etnici, culturali e sociali – ossia un ragionamento basato sul rapporto tra presente e origini dell’animale uomo dotato di facoltà di linguaggio a differenza del rimanente del mondo – e un ragionamento basato invece sulla zona primordiale in cui l’essere umano appartiene ancora a una zona intermedia tra la propria intelligenza soggettiva e l’intelligenza oggettiva del mondo.
Il momento in cui il barbaro prende nome è quando il civilizzato lo inventa come straniero e nemico, all’esterno delle mura della propria città o all’interno. La letteratura e l’immaginario sul barbaro sono dunque la rivelazione della volontà di potenza della civilizzazione. La violenza o la morte del barbaro alimentano la violenza o la morte di una civiltà.
In quale modo i media digitali stanno ponendo la carne umana in una condizione diversa rispetto al passato? Prima domandiamoci cosa accade all’immaginario con il web. Una sutura sempre più forte tra il mondo esterno e il mondo interiore dell’immaginario, una fusione tuttavia asimmetrica: il mondo mentale, disponendo di modi di produzione e consumo “cellulari” e di procedure conversative sempre più locali (indipendenti dalla vicinanza o distanza spazio-temporale degli interlocutori) polverizza sempre più il mondo esterno, le sue mappe testuali, le sue aggregazioni di pubblico. Questo non significa che sulle reti non possano restare ancora dominanti i capitali culturali, ideologici e emotivi che si sono accumulati attraverso i media tradizionali. Potrebbero trovare nella rete semplicemente altre forme di dominio. O bloccare le possibilità della rete ai propri vecchi contenuti.
Veniamo al rapporto tra corpi e carne. Sempre di sutura si tratta, ma anche di un conflitto – simbolico, pratico e politico – tra il potere dei corpi e la potenza della carne. In questi anni ho fatto frequentemente ricorso ad alcuni preziosi passaggi teorici del filosofo Roberto Esposito, in particolare il modo in cui ha insistito su una differenza anche a me molto cara (grazie ai suggerimenti stessi di un grande mediologo come McLuhan) tra corpo e carne. Il corpo rimanda ad un regime di senso chiuso in sé, dunque a una persona e a una società regolate e organizzate secondo ruoli di potere strumentali al dominio. La carne è invece aperta, informe, trasversale alla pelle che divide l’interiorità del corpo dal mondo esterno (Derrick de Kerckhove ha trattato bene questo concetto). La carne riguarda in un certo senso qualcosa che ha molto più a che vedere con quanto chiamiamo mentalità e non solo sensibilità affettiva, emotiva. La carne evoca ciò che travalica il corpo e insieme lo invade.
La vocazione relazionale dei linguaggi di rete e la progressiva e sempre più rapida digitalizzazione del mondo (qui serve ricordare la tesi di autori come McLuhan, che hanno insistito sulla natura di protesi umana delle tecnologie) stanno facendo crescere la carne in visibilità e tangibilità, dunque in potenza, in forza. Sta dunque aumentando in modo esponenziale la carne del mondo, se con il termine carne intendiamo appunto l’infinita trama di connessioni tra corpi organici e corpi inorganici dell’esistente: tra soggetti e oggetti. La questione ecologica, ad esempio, può suggerire un prossimo conflitto epocale tra volontà di potenza umana e potenza inumana della natura.
Quali forme e pratiche sta assumendo la politica? Nei territori tradizionali della società e dello spettacolo, la politica sta finendo la propria storia. La domanda può essere posta solo interrogandosi sull’impatto della politica con le reti, da un lato, e del consumatore-produttore dall’altro lato (se mai questa divisione fosse materialmente possibile). Questa domanda presuppone una distinzione tra chi intende affrontare l’aprirsi dei nuovi regimi della rete a partire da una prospettiva riformista e chi a partire da una prospettiva rivoluzionaria. E’ una dicotomia che potremmo schematicamente definire come distanza tra una cultura amministrativa (comunque affermativa in quanto fondata sul fare) e una cultura politica (negativa se non è al potere, affermativa se lo è, ma non sempre disposta ad amministrare l’abitare). Anche tra pratica e ideologia. Tra arti dell’abitare e utopia.
Lo scontro sull’uso rivoluzionario e su quello reazionario delle innovazioni di rete è il punto cruciale del recente dibattito sul futuro delle reti: lo scontro è tra una idea di trasformazione sociale di tipo “insurrezionale”, cioè concepito a tempi brevi, e una idea di trasformazione antropologica del mondo basata sulla lunga durata. Tanto le forze legate alla necessità di sopravvivenza delle istituzioni, dei partiti e delle vecchie organizzazioni, quanto le teorie che si basano su soggetti alternativi o “nuovi” tendono a una stessa ideologia del futuro.
Credo invece che le pratiche digitali, pur essendo disponibili a tutti e due i versanti teorici, abbiano l’oggettiva qualità di investire l’essere umano assai più delle sue corazze sociali: la loro capacità di destrutturazione dei paradigmi moderni (tutti legati alla soggettività e all’individualismo) potrebbe indebolire non solo i dispositivi di controllo sociale ma anche le credenze umane che ne sono state storicamente l’asse portante. Ad esempio quelle dell’Umanesimo. Ho detto potrebbe. Il conflitto è aperto e comunque la sua apertura resta in ogni caso vincolata alla dialettica moderna. Mentre dal punto di vista delle tattiche di sopravvivenza della vita quotidiana, le reti possono costituire un territorio in ogni caso modificato, mutato, trasformato. Dal punto di vista della soggettività moderna, non c’è nessuna sostanziale differenza tra una rete al servizio della globalizzazione capitalista e una rete al servizio delle istanze di controllo di una democrazia. Possiamo sperare nella seconda, ma questa è soltanto una forma più sofisticata di dominio. Possiamo pensare che sia più giusta ma si tratterebbe della stessa giustizia che lascia convivere il benessere dei paesi egemoni con il dolore e la morte della più parte del pianeta terra.