Prende avvio il ciclo 2009 delle interviste "Un caffè con…"
Alberto Abruzzese è un intellettuale italiano impegnato nell'insegnamento universitario. Dal 2005, insegna Sociologia dei processi culturali alla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, dove è Direttore dell'Istituto di Comunicazione e Pro-Rettore all'Innovazione e alle Relazioni Internazionali. Ha insegnato nelle Università "Federico II" di Napoli (1972 – 1992) e "La Sapienza" di Roma (1992 – 2005). Autore di numerosi libri, è tra i fondatori delle scienze della comunicazione in Italia e svolge una intensa attività convegnistica, intervenendo sulle politiche culturali e dei media. Vive tra Roma e Milano.
Lei è romano, ha vissuto per vent'anni a Napoli e da quattro anni frequenta Milano: quali riflessioni le ispirano queste città? Napoli è stata l'esperienza di una metropoli mancata, di una terra di confine della tradizione italiana, allo stesso tempo più ricca e più caotica dell'identità italiana. Quello che Napoli riesce, in qualche modo, a far vedere, a Roma viene sommerso, da un lato, dalla magnificenza della sua dimensione monumentale, storica, archeologica, e dall'altro dal suo sistema politico, dal suo essere il luogo dello Stato senza averne la storia. Ecco, la storia di Roma è un'altra storia rispetto a quella dello Stato nazionale. La sua storia è di lunghissima durata ma non si esprime e non è continuata nella tradizione istituzionale. C'è un conflitto permanente tra il suo territorio e le funzioni che la Capitale deve assolvere a livello locale, nazionale ed internazionale. Milano è anch'essa una città incompiuta che vive ondate periodiche, flussi, riflussi nel suo tentativo di svolgere il ruolo, che comunque le è e le sarebbe dovuto, di essere proiettata verso il centro dell'Europa. Non a caso ha vissuto alcuni fermenti che hanno a che vedere maggiormente con la dimensione contemporanea (moda, design, informazione) dei linguaggi espressivi ed è una città in cui, curiosamente, convivono un maggiore provincialismo e un maggiore cosmopolitismo, rispetto a Roma e a Napoli.
L'università italiana si trova a dover affrontare importanti questioni, dovute sia alla struttura interna del sistema universitario sia alle ultime generazioni di studenti, cresciute con i linguaggi digitali. Primariamente, su quali aree si dovrebbe intervenire? La rivoluzione digitale è piombata su un'università che, di fatto, non ha mai portato avanti un reale processo di modernizzazione. E' evidente come il corpo docente e l'istituzione siano ancora estranei a quelli che dovrebbero essere i valori ispiratori dell'innovazione digitale. Probabilmente, è soltanto in questo momento che gli studenti si stanno, progressivamente, digitalizzando. Questa digitalizzazione dei giovani, ovviamente, può essere una buona pressione affinché l'università adotti diverse piattaforme espressive. E' vero anche che questa fase è un'arma a doppio taglio: da una parte c'è una domanda più o meno espressa dai giovani con i loro linguaggi e questo può essere uno stimolo, ma contemporaneamente si può creare una frattura ancora più violenta con un'università che non è in grado di vivere la stessa esperienza che i giovani stanno vivendo. I giovani stanno apprendendo dalla vita, l'università dovrebbe riuscire a praticare una profonda trasformazione dei suoi statuti culturali e c'è indubbiamente una distanza fra questi due mondi.
Assieme alla scienza, all'industria e alle ideologie politiche, i media sono stati fra i simboli del Novecento. La televisione ha introdotto gli italiani nella modernità ed ha avuto un ruolo del tutto particolare nello sviluppo dell'Italia: quali sono le ragioni? Ho sempre pensato che la fortuna della televisione in Italia abbia delle motivazioni. Ritengo che abbia contribuito e contribuisca a far essere l'Italia – Paese pieno di contraddizioni e disomogeneità – un grande laboratorio di esperienze e di idee. Il ruolo della televisione è stato fondamentale perché in una nazione giovane e con un territorio diviso da tante culture che non erano mai state parte di un unico processo, ha realizzato quello che la scuola e le istituzioni non avrebbero mai potuto realizzare. Si può aggiungere che l'enorme spazio dato alla televisione – soprattutto in una certa fase, in qualche modo pilotata dallo Stato e dalla sfera pubblica – era anche il risultato di una collettività che in assenza di beni materiali concreti trovava nella televisione qualcosa che invece poteva soddisfare dei beni immateriali. Si aggiunga poi il salto dal regime pubblico al regime misto, con la sua offerta di tanti canali e dunque di tanti mondi vicini ma anche distanti tra loro in termini qualitativi, quantitativi, di immagine, di interessi, di linguaggi. Tutto questo ha fatto sì che attraverso la televisione si producesse, con oltre un secolo di ritardo, l'esperienza della metropoli ottocentesca che era storicamente mancata alla storia d'Italia e alla cultura italiana. Il consumo televisivo, in qualche modo, fa maturare molto rapidamente la sensibilità e l'immaginario collettivo italiano, con un salto molto forte in una dimensione metropolitana, piuttosto che nella dimensione urbana profondamente caratteristica del sistema politico e dell'organizzazione del sapere in Italia. La dimensione metropolitana, per eccellenza dimensione caotica e legata ad elementi di suggestione emotiva, ha fatto sì che la televisione, che in una prima fase aveva funzionato come consolidamento dell'identità nazionale, successivamente trasformasse il cittadino in spettatore. L'Italia vive molto in ritardo le trasformazioni e i traumi del passaggio da cittadino a spettatore. Ma paradossalmente, vivendoli molto in ritardo, sperimenta alcuni passaggi con una profondità maggiore rispetto a paesi di lunga durata e dotati di un livello istituzionale, statuale, identitario più forte.
Lei ha attraversato il mondo del cinema come sceneggiatore, regista, attore. Come si sono evolute le forme narrative del linguaggio cinematografico? L'Italia ha una sua cifra, che può rientrare all'interno del cinema europeo. Ma ha particolari caratteristiche, proprio per questa sua buona disposizione ad assorbire rapidamente dall'esterno tutto ciò che può corrispondere ad una cultura di massa. Anche per ragioni storiche legate alla caduta del fascismo e al dopoguerra, L'Italia mostra una elevata capacità di assorbimento del cinema americano e per molti anni va avanti vivendo contemporaneamente due identità dal punto di vista dello spettatore: da una parte il cinema italiano, nelle sue articolazioni e con il momento forte della commedia all'italiana che proveniva dalla tradizione del neorealismo, e dall'altra parte il cinema hollywoodiano. Inoltre, questa spaccatura del pubblico cinematografico trova altre proiezioni: sul piano della cultura tradizionale – libro e stampa – è sempre stata praticata questa distinzione tra prodotto nazionale e prodotto hollywoodiano di mercato e di consumo, ritenendo negativo il consumo di cinema importato e invece positiva la valorizzazione del cinema nazionale. Ma i consumi, invece, hanno premuto nell'altra direzione. E in seguito, nelle politiche televisive, questa distinzione è entrata a far parte della contrapposizione tra una televisione pubblica civile, educativa, culturale e una televisione dei consumi. Il cinema – che ha formato ancora la mia generazione ovvero quella generazione che prima ha attraversato l'esperienza cinematografica e poi iniziato quella televisiva oppure ha vissuto contemporaneamente il cinema degli anni '50-'60 e la prima televisione – ha progressivamente perduto di centralità rispetto a quella che poi è diventata la storia della televisione, che ha una dimensione totalmente diversa. Il cinema opera ancora at
traverso dei testi chiusi. La televisione è tutta un'altra cosa, diventa piuttosto il medium attraverso cui passano una serie di flussi, formati, forme, culture. L'originaria distinzione tra cinema e scrittura, tra immagine e scrittura, tra spettacolo e cultura, si sta addirittura ingigantendo in un filone del cinema che sta riducendo sempre più le sue inclinazioni narrative, in direzione di un cinema di grandi effetti speciali e spettacolari che con le nuove tecnologie possono esser ancor più potenziati. Si arriva, dunque, ad un cinema del sublime tecnologico, con particolari coloriture catastrofiche e con una curiosa congiuntura fra grandissimi investimenti economici ed un contenuto di tipo neomitologico. Ci sono poi le cinematografie nazionali europee, in cui il cinema italiano svolge un suo ruolo, faticoso, di concorrente. Il cinema, in qualche modo, ha riprodotto la distinzione ottocentesca tra letteratura di qualità e letteratura popolare, e attualmente possiede una dimensione narrativa che è limitata al ristretto pubblico del libro e della stampa, e poi ha un enorme pubblico che corrisponde alla fase terminale, più ricca ed articolata della televisione. Ed è il bacino della tarda televisione e del cinema spettacolare che è, in qualche modo, la placenta da cui poi si possono veder nascere le reti e la cultura digitale.
E, dunque, con quali caratteristiche si presenta l'immaginario collettivo alla fine del primo decennio del XXI secolo? Si presenta con una negoziazione, molto evidente, tra le opposte definizioni, teorie, letture, strategie, identità, destini che si attribuiscono al linguaggio delle reti. Da un lato, le reti possono apparire coma la massima espressione della capacità della tecnologia di dominare il mondo. Su un altro versante, altri le leggono, invece, come un processo in cui quelli che sono stati i paradigmi forti del cinema e della televisione, in quanto linguaggi di massa, collettivi, generalisti tendono a disgregarsi appunto nella dimensione della rete. E, dunque, ai mass media si contrappongono i personal media – nelle forme colte del computer e popolari della telefonia mobile – in cui invece di essere privilegiata l'identità collettiva viene privilegiato il singolo, il gruppo, la comunità. All'interno di questa analisi in cui le reti vengono negoziate in due direzioni profondamente diverse, una globalizzante e l'altra più legata ai luoghi, c'è poi una ulteriore lettura secondo cui questa innegabile trasformazione delle forme di comunicazione praticate attraverso i personal media può essere interpretata effettivamente come un meccanismo di disgregazione dei vecchi modelli sociali, dei vecchi sistemi, dei valori culturali delle culture nazionali. Altri ancora ritengono che attraverso la rete possano passare delle trasformazioni in grado di operare per la continuità dei vecchi valori. Dunque la negoziazione è tutta sui contenuti, per capire se le reti stiano diventando lo strumento di maggiore agilità, abilità, forza, efficienza al servizio dei vecchi contenuti oppure se possono produrre contenuti che siano profondamente in conflitto con quelli tradizionali.
Torniamo ai luoghi: Parigi, Londra, New York. Tre metropoli ben presenti nell'immaginario internazionale. Come hanno marcato l'immaginario? Parigi è, per me, la città europea che è riuscita a fare ciò che non è riuscita a fare Roma. Lo ha potuto fare anche perché, pur essendo una città di grandissime tradizioni ed essendo stata una delle prime metropoli, su di lei non pesa la monumentalità archeologica che è la caratteristica dominante a Roma. Roma è, in gran parte, immodificabile proprio in base alla sua monumentale antichità. Parigi è stata metropoli già nel XIX secolo, ha trasformato la sua città vecchia in termini nuovi ed è potuta diventare una città per eccellenza cosmopolita. Roma è il luogo di visita obbligato per il cosmopolita ma Parigi diventa la città che può essere abitata dal cosmopolita. Londra è la città dell'impero, del suo vecchio impero. In qualche modo, Londra è proprio la radice dell'Occidente e conserva questa sua caratteristica. Simbolicamente svolge un ruolo straordinario perché l'intera storia dell'Occidente può essere individuata in questa città, e oltretutto essa rappresenta il soggetto moderno, l'Occidente, la radice da cui poi in qualche modo nasce il mondo nuovo, l'America. Londra ha avuto la capacità di essere centro della finanza e di essere un impero prima che le dimensioni di un impero assumessero caratteristiche diverse, come quelle americane. In seguito, l'eredità viene storicamente assunta dall'America. New York non è l'America profonda, è semmai la metropoli che porta il segno delle sue radici europee. New York è New York: la matrice dell'Occidente è l'Europa del Nord fattasi America. Una Londra liberata dai suoi vincoli storici, sociali, culturali. Il caput mundi della modernità.
Lei sostiene che i linguaggi digitali siano, in realtà, una immersione nella carne. Perché? Mi pare di veder farsi strada un'idea che viene da McLuhan e che a me sembrava abbastanza chiara: tutti i linguaggi espressivi, a partire dalla fotografia per arrivare alle reti, sono sempre forme che non possono essere riducibili semplicemente ai mezzi di comunicazione di cui un sistema sociale si serve, ma sono soprattutto il farsi luogo dell'esperienza vissuta, la piattaforma espressiva che viene abitata da determinati soggetti e dai loro contenuti (il medium è il messaggio, diceva Marshall McLuhan). E perciò le reti costituiscono qualcosa che non è soltanto uno strumento di comunicazione più potente di altri ma funzionano proprio perché sono abitate ancor più che usate: questo sta diventando molto chiaro adesso con fenomeni come Facebook e il web 2.0. Ormai risulta evidente che non si tratta di strumenti ma di modi d'essere e quindi di vivere e di esprimersi. Il discorso sulla carne si può spiegare ragionando, intanto, sulla contiguità e sull'ibridazione sempre più strette fra linguaggi digitali e biotecnologie, quindi ragionando sull'enorme possibilità di manipolazione del corpo umano. L'idea che l'analisi sul corpo stia diventando così importante, e che oltretutto si giochi nella differenza di senso tra la parola 'corpo' e la parola 'carne', nasce dal fatto che la stessa dimensione delle reti mostra una tale pervasività di relazioni tra l'umano e il non umano da mettere in moto questa idea della carne e del vivente. L'idea di carne non è da confondere con l'idea del corpo che, in qualche modo, è la dimensione della carne privilegiata dal soggetto moderno (la carne chiusa nel ruolo di identità sociale, imprigionata nella pelle che la vincola alla vista, dominio di etiche, estetiche e politiche della modernità). Quanto più le culture contemporanee, almeno una loro parte e in determinati modi, stanno abbandonando l'individualismo che ha fondato la modernità, tanto più il discorso slitta dal corpo alla carne. Da un lato, abbiamo soprattutto processi razionali, cognitivi, sapienziali e dall'altra parte assistiamo a dinamiche esperienziali che hanno a che vedere soprattutto con le emozioni, con una tattilità che non è più di superficie. E' evidente che quando si fa contrapposizione tra corpo e carne si opera, in qualche modo, la contrapposizione tra un corpo definito cartesianamente e un essere umano definito attraverso una dimensione emotiva profondamente antirinascimentale ed antiumanistica.
Da alcuni anni, si accostano spesso l'arte e il design ai mondi dell'impresa e dell'innovazione. Quali connessioni si possono realizzare fra questi saperi e questi mondi? Si tratta di una questione complessa. L'innovazione tecnologica, per funzionare, deve avere dei contenuti: mi sembra l'assunto principale da capire. Ma intanto si continua a fare ricorso all'arte solo come sinon
imo di creatività. Se l'innovazione tecnologica deve avere dei contenuti, è evidente che ci vuole creatività per elaborare questi nuovi contenuti e successivamente saperli esprimere, ma il punto essenziale è essere in grado di rinnovare e innovare i contenuti. Per molti aspetti, l'aura di cui circondiamo la creatività è un vecchio contenuto. Mi convince assai poco il riferimento all'arte in relazione alla necessità di rielaborare i contenuti al fine che le tecnologie non rispondano ai vecchi regimi e ai vecchi saperi ma corrispondano ai mutamenti in corso. Noi continuiamo a parlare di arte come si è sempre fatto, ricollegandoci ad un'idea dell'arte romantica, e ci dimentichiamo che quando facciamo riferimento all'arte facciamo riferimento a qualcosa che è iniziato, di fatto, con la modernità, ovvero nel momento in cui l'arte si è distaccata dalla religione e dal potere. C'è una preistoria dell'arte che non corrisponde con l'arte nel senso istituzionale che oggi le attribuiamo. Esiste una sfera simbolica che non coincide con il significato normativo (o antinormativo, su questo piano è la stessa cosa) che l'arte ha progressivamente assunto come sfera espressiva dell'armonia e della bellezza. Ritengo che sia molto ambiguo evocare l'arte perché essa funzioni come creatività nei processi di innovazione. Naturalmente, sono d'accordo sul fatto che la riflessione sui fatti artistici, sulle esperienze artistiche e soprattutto sulla natura episodica ma illuminante dell'arte moderna, ci possa aiutare a raffinare la nostra sensibilità per affrontare le sfide di una radicale innovazione dei contenuti. La sfera da cui ripartire, non sufficientemente elaborata o a volte anche rimossa, potrebbe essere quella del periodo delle avanguardie storiche, laddove la crisi dell'arte moderna e l'esperienza dell'arte d'avanguardia suggerivano che il punto di riferimento non fossero i prodotti della tradizione giudaico-cristiana ma le forme d'arte primordiale. Anche perché questo tipo di riflessione permette forse di ragionare meglio sul termine 'postumano', che mi sembra più adatto ad articolare una presa d'atto sul presente. Tutto quello che, oggi, si dice tra i creativi della moda e del design è qualcosa che sostanzialmente non muta molto i paradigmi della modernità. Anche laddove si faccia il massimo sforzo, togliendo la parola 'design' alla sua appartenenza all'architettura e al disegno delle macchine e usando invece l'espressione di 'design dell'esperienza', comunque rimane una radice moderna che frena la possibilità di ragionare su quanto le nuove tecnologie potrebbero fruttare, nel presente, in termini di nuove forme relazionali. Ritornano utili, in tal senso, le osservazioni di McLuhan sul progressivo abbandono della potenza autoritativa dell'immagine e sulla maggiore attenzione al sentire e ad altri sensi che sono stati trascurati dalla modernità. E torna bene l'idea del postumano, che si riallaccia al preumano e quindi a dimensioni in cui erano altri sensi a consentire di abitare un luogo.
La storia di Barack Obama è un esempio di comunicazione politica innovativa e di politica post-ideologica. Come valuta la sua elezione? Straordinario il suo successo in America. Mi sembra evidente, comunque, che la sua affermazione si inserisca all'interno della tradizione americana. E' straordinariamente interessante che l'America, essendo stato il paese che in qualche modo ha inventato la democrazia e che ha saputo esprimere una straordinaria cultura del progresso e di colonizzazione del mondo, produca un evento di questo genere. Se si leggono le dichiarazioni di Obama, ci si accorge che attraverso di lui passa una delle due facce dell'America. Ho trovato estremamente interessante il suo discorso inaugurale: molti di noi accentuano l'aspetto liberatorio delle reti, la loro capacità di intaccare i vecchi contenuti e di agevolare contenuti e relazioni di tipo diverso, con fini diversi da quelli che hanno caratterizzato la modernità e i linguaggi generalisti. Quasi che attraverso le reti si potesse re-immaginare il mondo e si potessero creare mitologie adatte al mondo presente e non radicate nella modernità. Ma se si legge attentamente il discorso di Obama, si nota che questa straordinaria e sofisticata capacità di ricorrere ai new media è per confermare e riaffermare, di fatto, la continuità dei valori americani. Non nego nulla della trasgressività politica che l'evento di Obama rappresenta; tuttavia soffermandomi sull'uso che ha fatto dei media, mi sembra che sia una interessante dimostrazione di una possibile continuità del contenuto moderno attraverso le reti digitali.