Sesto ed ultimo appuntamento del 2009 con le interviste del ciclo "Un caffè con…"
Carlo Massarini è giornalista, autore e conduttore radiofonico e televisivo, fotografo ed esploratore digitale. Nato a La Spezia nel 1952 e cresciuto in Canada, ha condotto le prime trasmissioni radiofoniche Rai dedicate alla musica rock e ha scritto per Popster e Rolling Stone. Dal 1981 al 1984 ha condotto Mister Fantasy, primo programma Rai e della televisione italiana dedicato ai videoclip, e in seguito e sempre in Rai, Non necessariamente, varietà televisivo che utilizzava tecniche miste cinematografiche, video e di computer graphics. Dal 1995 al 2002 ha condotto Mediamente, programma di Rai Educational dedicato ad Internet e alle nuove tecnologie. Vive a Roma.
Hai recentemente pubblicato un libro intitolato Dear Mister Fantasy (Rizzoli Editore) che racconta il periodo musicale dalla fine degli anni Sessanta all'inizio degli anni Ottanta. Da dove nasce la tua passione per la musica e dove ti ha portato? Si può dire che nasca, come tutti i ragazzi di allora, sulle canzoni dei Beatles e sul beat italiano. Quando arrivai a Roma, mi si aprì un mondo: era un periodo fantastico. Stiamo parlando del 1967, forse l'anno più psichedelico, colorato e fantasioso della musica. Ho iniziato ascoltando, tra gli altri, Beatles, Rolling Stones, Who. Fino a quando è scoppiato un grande amore per i Traffic, che avevo identificato come mia band 'personale' e come il gruppo nel quale ho visto tutto quello che mi piaceva: era una musica che fondeva jazz, blues, folk, rock, rhythm'n'blues in una maniera assolutamente originale, tanto è vero che i Traffic non sono mai stati replicati. Lì è cominciato questo viaggio che lentamente, da puro piacere personale, si è trasformato in lavoro, prima radiofonico, poi fotografico, in seguito giornalistico ed infine televisivo. Come ho scritto nel libro, era un'epoca in cui tutto era possibile, musicalmente c'era una straordinaria voglia di creare e di rompere le barriere. C'era una generazione di artisti che probabilmente non è stata più replicata, almeno a livello quantitativo. E' una grande differenza con la musica che è venuta dopo: non è che quel periodo sia stato necessariamente il migliore di tutti, ma era incredibile la concentrazione di artisti e di creatività in quegli anni. Anche successivamente sono arrivate delle cose interessanti, e forse anche ai giorni nostri ci sono, ma non così tante e non così intense. Ma anche il contrario era tutto possibile: era un periodo molto duro per l'Italia, con grandi rivolte interne e scontri tra la destra e la sinistra. Nella musica, c'era una corrente di autonomia che creava caos ai concerti. Concerti spesso sospesi, finché poi non è stata proibita l'idea stessa dei concerti per almeno un paio d'anni, tra il 1977 e il 1978. E' stata una stagione molto intensa e creativa, non necessariamente tutta in positivo.
La musica può essere considerata il laboratorio dei nuovi media. Come si sono evoluti gli artisti e i contenuti musicali di fronte alle innovazioni portate dai new media? Recentemente, ho fatto una serata con Carlo Infante che non è stata soltanto la presentazione del mio libro ma è stata la presentazione di un percorso. Si tratta del mio percorso, che è partito dalla musica ed è passato per i videoclip e per la televisione con una trasmissione di arte televisiva come è stata Non necessariamente. E' stato un programma molto psichedelico e fantasioso andato in onda in tv nel 1986 "anticipando" internet di circa dieci anni: avevamo una grande rete che catturava le immagini, un computer e una pietra della memoria, e io viaggiavo accompagnato da una mappa che poteva essere considerata un browser. E' stato uno spettacolo profetico, e poi dieci anni dopo è arrivato Mediamente. Questo percorso ci ha fatto capire come, per certi versi, tutta quella che chiamiamo cultura contemporanea – pop culture per gli americani – nasca in fondo dalla musica. Perché dalla musica e dagli artisti di quegli anni è partito un grande movimento. Noi pensiamo sempre alla musica degli anni Settanta come ad una musica impegnata – in Italia, in America la musica impegnata fu caratteristica del decennio precedente -, di persone che volevano cambiare il mondo. Questo, in parte, è vero. Però cambiare il mondo non era solo un fatto politico o di libertà di parola, ma era anche una voglia di libertà di idee, di sperimentare e creare nuovi linguaggi. Quando si sono prospettate nuove soluzioni tecnologiche e di comunicazione, questa comunità in cui non c'erano soltanto musicisti e che ruotava intorno al rock e all'alternativo è stata la comunità giovanile che ha dato il via a grandi cambiamenti. L'internet del primissimo periodo era data, in America, da persone che vivevano questa commistione americana tra sperimentazione delle droghe, tecnologia avanzata, musica alternativa. Quello è stato, in un certo senso, il brodo di cultura da cui è partito tutto. La connessione tra musica e tecnologia può essere individuata nel fatto che entrambe sono su un terreno di frontiera: la frontiera della comunicazione e della creatività. Ma, scavando più in profondità, si può vedere come la connessione sia stata anche un ambiente comune di persone che amavano sia la musica sia la tecnologia e in qualche maniera hanno sviluppato sia l'una sia l'altra. Poi, non a caso, artisti come David Bowie e Peter Gabriel sono stati tra i primi ad usare questi nuovi mezzi di comunicazione in maniera interessante, per portare avanti la conoscenza. C'è un legame forse più forte di quello che si possa pensare fra musica e tecnologia. Naturalmente poi c'è tutta la parte della tecnologia che entra nella musica, e il fatto che essa cominci a diventare campionabile e manipolabile. Tutto questo percorso porta alla musica su internet, alla sua diffusione in maniera capillare, alla crisi delle case discografiche, alla crisi della riproducibilità. Queste sono conseguenze dei periodi più recenti. Nel primo periodo c'è stata una grande creatività ed è un dato comune sia alla musica sia alla tecnologia.
Con Mediamente, riuscivi a spiegare internet e le nuove tecnologie attraverso il mezzo e il linguaggio della televisione. Pensi che oggi sia ancora possibile farlo? Credo che sia non solo possibile ma anche necessario. La chiusura di Mediamente è stata un telecidio insensato. E' stato chiuso perché il vertice di Rai Educational non comprendeva l'importanza di quello che stava succedendo e ha ritenuto che un programma del genere non servisse. Ricordiamo il momento specifico: era il 2002. Si era appena usciti dallo sboom di internet e della new economy, erano saltate le dotcom, e si pensava che forse la tecnologia aveva promesso troppo. Invece si trattava della classica riazzerata necessaria per poter ripartire meglio. Il ripartire meglio ci ha portato, nel giro di sette anni, ad avere intorno a noi un ambiente di comunicazione più evoluto, interattivo, partecipato, partecipativo. Queste sono differenze sulle quali varrebbe la pena riflettere, proprio adesso che la banda larga ha una diffusione maggiore, i contenuti iniziano ad essere più interessanti, creativi e diffusi, e si è creata più partecipazione, con i social network che hanno cambiato completamente il modo di approcciare il mezzo. Adesso varrebbe la pena rientrare in gioco e proporre un Mediamente 2.0 diverso, più partecipato. Si potrebbe fare un programma che viaggia su internet, sulla televisione, sul telefono. Bisognerebbe fare sicuramente un programma meno basic a livello educational – ormai, più o meno, il pubblico sa andare sull'internet – e che invece possa continuare a raccontare quali siano le grandi opportunità di internet
, e se vuoi anche i rischi, e possa comunque aprire ancor più la mente a coloro che si sono avvicinati ormai da anni ad internet.
Come è cambiato il panorama mediale dagli anni Settanta ad oggi? Il panorama è completamente cambiato. Basti pensare che quando facevamo Popoff, nel 1973, la radio si fermava alle 21.30 e riprendeva alle 7.00 del mattino successivo. Durante la notte, c'era la filodiffusione a reti unificate con musica degli anni Cinquanta e anche la tv non era molto diversa. Quando facevo Mister Fantasy, la tv finiva verso mezzanotte e riprendeva verso la tarda mattinata del giorno successivo. Mentre una volta c'erano pochi mezzi di comunicazione e generalmente non interattivi, oggi siamo in un mondo in cui i mezzi di comunicazione sono numerosi e alcuni di questi sono interattivi, ovvero consentono di partecipare più attivamente alla comunicazione stessa. Questa mi sembra una differenza talmente forte da rendere non paragonabili i due periodi. L'abbondanza di comunicazione che c'è adesso tende ad essere un po' soverchiante: se, nell'arco di una giornata, una persona volesse lavorare, vivere, rispondere a tutti i contatti su Facebook, rispondere sul proprio blog o sito, scambiare e-mail, telefonare agli amici, sarebbe necessaria una quantità di tempo che non abbiamo nelle 24 ore. Dunque, bisogna essere selettivi: mentre in passato l'attenzione era puntata sulla ricerca del materiale giusto, ora bisogna concentrarsi sul separare il materiale interessante da quello che non lo è.
Anni fa, David Bowie ti disse: "Se una cosa funziona, buttala via". Come hai interpretato questo consiglio? Mi sono fatto del male con questo consiglio. Dopo il terzo anno di Mister Fantasy, ho voluto fare qualcos'altro a livello televisivo: Non Necessariamente. Una meteora a livello televisivo: è passata senza che quasi nessuno se ne accorgesse, nonostante ci avessi lavorato per un anno e mezzo. Poi è arrivato Baudo che mi ha portato a Sanremo, in seguito ho fatto televisione generalista, successivamente sono stato fermo per alcuni anni e poi ho ricominciato con Mediamente. Questa teoria del "fare una cosa buona e poi gettarla via" è una teoria dadaista, anche molto interessante dal punto di vista evolutivo-creativo. Sei sempre in movimento per creare qualcosa. Ma devi essere pronto a pagare un prezzo: il prezzo del mancato consolidamento, ogni volta, di quello che hai fatto. Ad esempio, se Mister Fantasy fosse stato fatto in un'altra epoca o con un altro atteggiamento sarebbe potuto diventare qualcosa su cui costruire per anni e anni. Il fatto di aver lasciato un'esperienza del genere l'ha fatta diventare una trasmissione di culto, ma dall'altra parte, non solo da un punto di vista economico ma di visione strategica del proprio percorso, non è stata una buona idea. Un manager avrebbe dato del pazzo a scelte simili. Ma, giustamente, qualsiasi manager penserebbe che un dadaista sia un pazzo e viceversa.
Possiamo affermare che l'arco di esperienza innovativa sia stato aperto dalle culture pop degli anni Sessanta, sia proseguito con i linguaggi del videoclip negli anni Ottanta, con l'arrivo di internet negli anni Novanta e con le esperienze di post-televisione degli anni Duemila. Probabilmente i sogni sono sempre un passo avanti rispetto alla realtà… Cosa ci riserva il futuro? Difficile da dire. Penso che, tra qualche anno, un sistema interessante potrebbe essere una televisione a portata di tutti. Adesso ognuno, o quasi, ha il suo blog o la sua pagina su Facebook: potrebbe essere che questa pagina diventi più evoluta, più multimediale e forse addirittura televisiva, consentendo una comunicazione visuale da molti a molti. Questa è una frontiera avanzata, che sembra facile a dirsi ma poi non è detto che funzioni. Pensiamo al videotelefono: in realtà poi abbiamo scoperto che non l'ha usato quasi nessuno perché le persone hanno continuato a preferire una comunicazione audio, o testuale via sms, ad una comunicazione video. Spesso e volentieri, ciò che si prevede come evoluzione logica di un sistema non necessariamente avviene, e se avviene non viene considerata la migliore soluzione possibile. Spesso, ci sono delle soluzioni intermedie che però soddisfano un bisogno. La soddisfazione dei bisogni rimane comunque l'elemento trainante anche nella tecnologia avanzata. Pensiamo all'esplosione di Facebook in Italia: era impensabile, così come era un po' imprevedibile anche in America. 13 milioni di italiani su Facebook – più della metà degli italiani presenti su internet – significano che questo social network ha soddisfatto un bisogno. Un bisogno di tenersi insieme, di ricollegarsi con persone che avevi perso di vista da 20 o 30 anni, una comunicazione immediata basata su pochi messaggi o magari una foto scambiata o un link; il collegamento Facebook – Youtube è quasi una costante. Spesso la tecnologia evolve in maniera impensabile perché soddisfa dei bisogni in quel momento più forti di altre cose. Evidentemente c'è bisogno di ricreare questo senso di comunità e di rientrare in contatto con persone che avevi perso di vista: si tratta di una esigenza attualmente molto sentita in Italia, imprevedibile appena un paio d'anni fa. Dov'è il futuro della comunicazione? Da un punto di vista tecnologico, è in una banda sempre più larga ed accessibile. E in contenuti autoprodotti di livello sempre più interessante. Però poi la vera soluzione tecnologica innovativa è dietro l'angolo ma nessuno lo sa.