Secondo appuntamento del 2010 con le interviste "Un caffè con…"
David Forgacs è professore di storia culturale italiana nel Dipartimento di Italiano della University College of London, dove dirige il Graduate Programme in Film Studies. Ha insegnato alla Royal Holloway University of London, alla Cambridge University e alla Sussex University. Il suo principale campo di ricerca è la storia della cultura e dei media nell'Italia moderna. Ha recentemente completato una residenza triennale (2006 – 2009) come professore alla British School di Roma, lavorando ad una ricerca intitolata "Linguaggio, Spazio e Potere in Italia dal 1800 ad oggi" che confluirà nel libro Italy's Margins (Cambridge University Press, autunno 2010). Nel 2010, è visiting professor all'Università LUISS "Guido Carli" di Roma.
A cosa si deve il suo interesse per l'Italia? Mi sono interessato all'Italia per caso. Studiavo lingua e letteratura inglese ad Oxford ma al secondo anno volevo lasciare gli studi. I miei professori mi dissero di non abbandonare, e di andare per un anno all'estero a studiare qualcosa di diverso. E così arrivai a Milano, dopo aver vinto una borsa annuale del British Council. Iniziai ad interessarmi di vicende italiane: come molte cose nella vita, è successo per caso. Era il periodo tra il 1973 ed il 1974: un momento molto interessante per me, sul piano politico. Nel frattempo, mi laureai ad Oxford e in seguito mi specializzai in storia politica e dei media in Italia. Avevo svolto il mio dottorato di ricerca studiando l'opera di Antonio Gramsci e da lì nacque il mio interesse per la storia della comunicazione: Gramsci era interessato al rapporto tra formazione dell'opinione pubblica e modi di comunicare. Però Gramsci non ha dedicato molta riflessione ai nuovi mezzi di comunicazione di massa del suo tempo. Stranamente, anche se aveva scritto saggi brillanti sul giornalismo e sulla stampa, non si soffermò sul cinema, sulla radio, sull'editoria popolare dei rotocalchi. E, dunque, ho voluto applicare il modello gramsciano ai media che lui non aveva analizzato. Il mio interesse per la storia dei media italiani è una "combinazione" fra l'essere arrivato in Italia quando avevo 21 anni e la scoperta di Gramsci.
Quali specificità hanno i media italiani rispetto al resto d'Europa? Si tratta di un panorama complesso. In primo luogo, possiamo annoverare tradizioni di localismo più forti rispetto ad altri paesi. Pensiamo al legame storico-geografico fra determinati giornali e determinate città. In secondo luogo, in Italia si è sviluppato un particolare intreccio tra sistemi di comunicazione e sfera politica. Attraverso l'esperienza del fascismo, l'Italia è stato uno dei primi paesi a sperimentare il rapporto tra un regime ed i mass media. Ed anche dopo la caduta del fascismo c'è stata una particolare convergenza tra potere politico e gestione dei mezzi audiovisivi. Si è trattato di un lungo periodo, che si è esteso con la DC fino all'inizio degli anni Novanta. E poi c'è stata una fase successiva, in seguito all'entrata di Berlusconi in politica. Abbiamo, dunque, due momenti di particolare intreccio fra interessi politici ed interessi mediatici. In terzo luogo, ci sono alcuni fattori ben noti agli studiosi: lo storico basso livello del consumo di carta stampata ed un certo numero di ritardi accumulati dall'Italia, ad esempio nell'utilizzo di internet e nella diversificazione delle piattaforme televisive. Ritardi che in questi ultimi anni l'Italia sta parzialmente recuperando.
Risulta ormai evidente che alla base dei messaggi politici ci sia una narrazione emotiva. Oggi, inoltre, i blog possono far passare messaggi a favore del consenso o del dissenso. Come si può interpretare questa natura "anfibia" dei new media? I blog e i new media non hanno in sé un carattere politico marcato: naturalmente bisogna poi studiare le varie realtà nazionali. C'è una recente ed interessante ricerca della Harvard University sulla blogosfera iraniana che mostra come ci siano, in quel paese, sia blog a favore del regime sia blog contro il regime. Come nella politica e nella società civile, si può dire che anche nei blog ci sia una gamma di posizioni espresse.
Il cinema italiano è una galassia sfuggente. Come si può interpretare la cinematografia italiana nell'ambito dei film studies? Bisognerebbe andare oltre gli stereotipi. All'estero, il cinema italiano è stato a lungo percepito come un "cinema d'arte". Tralasciando il periodo del cinema muto, conosciuto sostanzialmente dagli studiosi e dagli addetti ai lavori, di solito si pensa a due fasi importanti di creatività nel cinema italiano: il periodo del neorealismo, dal 1943 al 1952, e gli anni Sessanta, generalmente considerati come gli anni d'oro del cinema italiano. In seguito c'è stato un calo, anche se negli anni Settanta ci sono stati film importanti, ad esempio gli ultimi lavori di Pasolini ed alcuni film di Bertolucci. All'estero, questi due periodi sono conosciuti e riconosciuti. In seguito, il cinema italiano diventa meno noto, con poche eccezioni. Negli ultimi tempi, pochi film italiani hanno avuto successo all'estero, e il successo è stato dovuto non tanto alle qualità cinematografiche quanto ad altri fattori. Ad esempio, il successo di film come Gomorra e Il Divo è legato all'importanza dei temi trattati. I nuovi autori ed attori italiani non sono molto noti all'estero, ad eccezione di quelli che sono riusciti a sfondare le barriere andando in America, come Crialese e Muccino. Per chi lo conosce, il cinema italiano ha una storia complessa: adesso sta vivendo una certa fase di ripresa, dopo anni di perdita di pubblico e di scarsi investimenti nelle produzioni. Ma è difficile sostenere che, all'estero, ci sia la percezione di un cinema italiano contemporaneo particolarmente vivo e creativo. Invece, nel campo dei documentari e dei cortometraggi, il cinema italiano sta dando segni di maggiore creatività.
Utilizzando i metodi di ricerca dei cultural studies anglosassoni, come si può descrivere la cultura italiana? Si può dire che i cultural studies abbiano ripensato ciò che si considera "cultura". Una delle novità dei cultural studies è dire che qualsiasi attività sociale può essere considerata come un'espressione culturale, ovvero portatrice di valori simbolici. I cultural studies possono essere utilizzati per capire nuove tendenze e nuove forme di aggregazione sociale. In Italia, come in molti altri paesi, si sta vivendo, probabilmente è già accaduto, il crollo di un certo modo di organizzare la società in termini di appartenenza politica tramite i partiti di massa. Questo sistema ha retto fino all'inizio degli anni Novanta, ma oggi le persone quali forme di aggregazione sociale vivono? I cultural studies permettono di analizzare il passaggio da forme di appartenenza sociale basate su istituzioni politiche o religiose ad altre forme di aggregazione sociale come gruppi o reti virtuali di amici. C'è, inoltre, tutta la tradizione di cultural studies britannici, riconducibile a Stuart Hall, che permette di analizzare le ideologie di massa. E questo è utile anche per le analisi sull'Italia: ad esempio, perché la destra regge, da anni, nonostante le accuse di comportamenti illegali? Perché è riuscita a
creare un progetto popolare. Possiamo leggere l'ultimo decennio come una fase ideologica nuova. E bisogna capire qual è la base di consenso di questo movimento: finora è un'operazione che non è stata fatta in maniera completa. Per motivi strutturali, i commentatori politici non sono stati molto in grado di cogliere i motivi profondi del consenso. Sarebbe molto interessante se, oggi, si potesse fare sull'Italia un'analisi come quella compiuta da Stuart Hall sul tatcherismo. L'approccio politologico tradizionale, usato ad esempio dallo storico britannico Paul Ginsborg per analizzare i motivi del consenso politico in Italia, può fornire elementi utili, ma i cultural studies possono avvicinarsi di più a capire perché, ad esempio, certi gruppi sociali sostengano una determinata compagine politica.